Matteo Renzi (foto LaPresse)

Renzi nella gola della Ditta

Claudio Cerasa
Ciò che conta della direzione del Pd è la ciccia: può davvero il premier consegnarsi alla vecchia sinistra senza perdere gli elettori conquistati a destra? L’effetto Veneto, il futuro della rupture, i cinque passaggi cruciali.

Dal punto di vista tattico, la direzione convocata ieri sera a Largo del Nazareno da Matteo Renzi aveva uno scopo preciso e semplice da decifrare: mettere a punto una strategia utile per allineare il binario della maggioranza con quello della minoranza ed evitare così di far deragliare in Parlamento il treno del Pd. Dietro la tattica, però, si nasconde un tema politico importante che, al di là delle singole decisioni prese dalla direzione, si può focalizzare allargando l’inquadratura e spiegando il futuro del Pd, e di Renzi, per quello che è. Mettiamola così: ora che un accordo strutturale con Forza Italia su alcune riforme centrali per questa legislatura appare di giorno in giorno sempre più complicato e difficile da realizzarsi, specie in una fase in cui Forza Italia (vedi il dossier sui migranti) ha deciso di offrire alla Lega una buona fetta di golden share culturale del nascituro nuovo centrodestra, riuscirà Renzi a evitare che l’effetto Veneto si estenda anche sul resto del paese? Per “effetto Veneto” si intende un fenomeno particolare sul quale Renzi si gioca un pezzo importante del suo futuro e quell’effetto è facilmente sintetizzabile: riuscire a mantenere nel proprio bacino elettorale gli elettori non tradizionalmente di sinistra finiti in questi anni all’interno del perimetro del Pd (soprattutto alle Europee) sia per curiosità rispetto al progetto renziano sia per mancanza di alternative concrete. Il caso Veneto, in questo senso, è esemplare. In mancanza di un’alternativa a Renzi, anche gli elettori di destra spesso votano Renzi (Europee 2014).

 

In presenza di un’alternativa – e che alternativa – a Renzi (Regionali 2015, con Zaia) gli elettori strappati alla destra tornano rapidamente a casa (conseguenze dell’avere una base sociale fatta solo ed esclusivamente di voto di opinione). Che c’entra il Veneto con la direzione del Pd? C’entra eccome. C’entra perché oggi la sfida del presidente del Consiglio è presidiare uno spazio politico che non sia sovrapponibile con quello della vecchia ditta. E che Renzi oggi corra questo rischio lo si desume da un fatto elementare. Questa legislatura ha un senso se il presidente del Consiglio, oltre alle riforme economiche, riuscirà a portare a casa anche le riforme istituzionali. Senza l’appoggio di Forza Italia, l’unico modo per portare a casa queste riforme è mettersi nelle mani della vecchia ditta (che al Senato ha i numeri per frenare quando vuole il treno del governo). E mettendosi nelle mani della vecchia ditta, evidentemente, Renzi corre il rischio di non potersi più muovere con il passo del Rottamatore della vecchia sinistra. Il percorso che prenderà la riforma della scuola e la riforma del Senato sarà un indicatore importante per capire quali saranno i nuovi rapporti di forza che nasceranno all’interno del Pd e su quel fronte il segretario del Pd dovrà concedere qualcosa. Ma la vera scommessa per Renzi, anche per scongiurare l’effetto Veneto, sarà quella di non rimangiarsi la rottamazione (annunciata) su cinque dossier cruciali, che per una vita la sinistra ha gentilmente regalato alla destra: la riforma strong della Pubblica amministrazione, la riforma della contrattazione aziendale, la riforma degli ammortizzatori sociali, la revisione della spesa pubblica e un intervento sulla pressione fiscale finanziato con risparmi dello stato e non con l’aggiunta di nuove tasse (come è successo con gli ottanta euro finanziati con una nuova tassa, l’Imu agricola).

 

[**Video_box_2**]Il messaggio che uscirà dunque da questa nuova fase del Pd, se così si può chiamare, sarà quello di “una ritrovata unità”, “una rafforzata condivisione del percorso”, “un ritorno al metodo Mattarella”, e altre minchiatine politicistiche. Ci si potrà girare attorno quanto si crede e si potranno trovare tutte le formule possibili e immaginabili per inquadrare questo percorso. Ma la verità è che il renzismo funziona solo se affiancato dalla parola “rupture”. Per questo Renzi sa che mettersi troppo nelle mani della vecchia ditta (il rischio c’è, a meno di non voler governare il paese facendo leva sulle piccole stampelle dei nuovi possibili gruppi parlamentari) sarebbe un modo come un altro per regalare ai suoi avversari gli elettori conquistati e strappati via in questi mesi. Lo spazio per non perdersi c’è – e in fondo trovare un Parlamento che tema le elezioni più di questo è opera complicata. Ma se così non dovesse andare, se l’unica via possibile fosse quella non di rilanciare ma di vivacchiare, a quel punto, per resistere, ci sarebbe solo un’unica e complicata via. Una e soltanto una: andare a votare.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.