(foto Olycom)

Il romanzo di Bobo Maroni /5

L'apprendistato da “figlio di puttana” di Maroni nel '92 del cappio

Cristina Giudici e Marianna Rizzini

La quarta puntata del feuilleton fogliante sulla vita e le opere di Roberto Maroni

Roberto Maroni cala in Parlamento nel 1992, con l’orgoglio del marziano e quasi trentamila preferenze in tasca. “Economicamente ci perderò”,  confessa all’allora inviato del Corriere della Sera Alessandro Sallusti. Punti salienti di quella cronaca d’autore: Maroni che prende i telegrammi di congratulazioni, legge i nomi dei mittenti e dice “questo è un lobbista”, “questo è un ladro”. Maroni in jeans che azzarda: “Discendo da Virgilio”. Maroni che ridendo minaccia: “Roma si accorgerà che non siamo né attacchini né bru bru”.

Maroni a parte, la Lega ha fatto il botto: cinquantacinque deputati e venticinque senatori. Fioriscono le leggende sui leghisti che a Roma stanno solo tra loro, bevono solo Franciacorta e disdegnano la coda alla vaccinara. Gianluigi Da Rold, sul Corriere, li racconta “in gita” al seguito “dell’ottantratreenne Luigi Rossi, esperto di “labirinti romani”: questo è il Transatlantico, questo è il Corridoio dei passi perduti. Guido Passalacqua, nel “Il Vento della Padania”, li ricorda invece dietro all’ombrello da capoturista giapponese di Alessandro Patelli, il segretario amministrativo della Lega che nel ’93 verrà accusato di aver incassato un ingente contributo parlamentare (sono stato un pirla, disse a sua discolpa).

Il ’92 dello sbarco a Roma è infatti anche l’anno di Tangentopoli, ma la Lega non ha deciso da che parte stare. Il Bossi che oggi dice “siamo pronti a votare sì” all’arresto del deputato pdl Alfonso Papa (accusato nell’inchiesta P4), e che nel 2001 aveva invece alzato un grido contro “Forcolandia”, nel ’92 si chiedeva se per caso Di Pietro non fosse un “uomo dei servizi”, come ricordano Adalberto Signore e Alessandro Trocino nel libro “Razza padana”. Manettaro a corrente alternata, Bossi tra il ’92 e il ’94 sfrutta a suo favore l’indignazione contro la partitocrazia ma si mostra incredulo quando il deputato Luca Leoni Orsenigo sventola il cappio in faccia a Giuliano Amato che, da premier, parla di questione morale.

Maroni, in quei due anni di palestra parlamentare, si muove defilato. Se gli parlano ancora arrossisce, ma, racconta un testimone, “fa da spalla a Bossi nel giocare al gatto col topo con i democristiani” e allaccia rapporti trasversali che gli torneranno utili nel ’94, al momento di scalare il Viminale. Qualcuno lo pensa amico di Claudio Petruccioli ma Petruccioli, interpellato dal Foglio, oggi lo derubrica a semplice collega: “Lo conobbi nel ’92 in Aula: uomo intelligente, carattere aperto al dialogo e al confronto con la sinistra”. Nel libro “Rendiconto”, infatti, Petruccioli parla di un Maroni che, poco prima del voto, nel ’94, sonda con lui, e per conto di Bossi, l’umore di Occhetto in merito a “un’alleanza con la Lega per mandare all’opposizione i loro attuali alleati se questi… avessero preso strade inaccettabili per la Lega”. E però Maroni, pochi mesi dopo, dirà contro Bossi un sonoro “no” al ribaltone anti Cav.

Tra una chiacchierata a sinistra e una a destra (con Pinuccio Tatarella), tra una parola a Giorgio Napolitano, allora presidente della Camera, e una battuta con il federalista del Pds Franco Bassanini, Maroni mette le basi per il futuro. Intanto fa il vice del capogruppo leghista Marco Formentini (“ma Bossi lo voleva capogruppo da subito”, racconta al Foglio Formentini, esaltando il Maroni “fantasioso”). Un osservatore dell’epoca ricorda Bobo che manda a Bassanini un biglietto proprio mentre si vota l’autorizzazione a procedere contro l’ex ministro dc Remo Gaspari. Il biglietto, racconta il testimone, arriva a destinazione, i due si fanno l’occhiolino. L’autorizzazione è concessa. Bobo si volta verso un compagno, sorride e dice: “Siamo dei veri figli di puttana”.

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