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lo scenario

La gloria che la gente ucraina si è guadagnata e la vergogna di chi l'ha irrisa

Adriano Sofri

Davanti al piano Trump, Zelensky forse deve confidare in una conclusione, anche costosa e che gli tirerebbe addosso l'ira dei suoi troppi rivali. Si intitolerebbe la fine dei bombardamenti: triste e straziato desiderio degli ucraina

I paragoni con Yalta sono superflui, se non altro perché Roosevelt non era un attendente di Stalin. Salvo che per un punto: la rianimazione delle zone d’influenza. La Russia dopo l’89 aveva perduto la sua, Putin si era avventurato a riafferrarla gratis il 24 febbraio, poi aveva dovuto leccare le ferite e riprovarci, mettendo in campo tutto, e soprattutto il ricatto nucleare. Trump, nel quale ogni connotato è grottescamente paradossale compreso l’isolazionismo, nutrito com’è di bombardamenti improvvisi e invadenze edilizie, ha riaffermato la sua zona d’influenza Monroe facendo di stati centroamericani altrettante galere albanesi, però piene, e incrociando davanti al Venezuela di Maduro, regime orribile di cui però è orribile progettare la caduta con le armi straniere. In un tale quadro, altro che staccare la Russia dalla Cina, il servizievole piano di Trump a Putin è anche una spettacolosa autorizzazione alla presa di Pechino su Taiwan, la sua zona d’influenza.

 

C’è una gara entusiasta a riconoscere alla Russia una legittima preoccupazione per la minaccia della Nato ai confini. Immaginate come suoni questo riconoscimento ai paesi confinanti che erano già nella Nato o che ci sono entrati proprio per l’aggressione all’Ucraina. Oltretutto, si fa una fatale confusione sulla minaccia che la Russia di Putin non sa sopportare, che non è quella militare bensì quella civile, di un’Ucraina europea e di liberi costumi. Per il regime russo, sfondare il fronte è meno importante che costringere a cedere la società civile ucraina, dunque la posta più preziosa non è il crollo del fronte ma quello della leadership politica, e del presidente Zelensky. Sua era stata l’inaspettata resistenza e lo smacco vergognoso inflitto alla superbia imperiale, sicché il suggello più goloso della vittoria, quasi quattro anni dopo, non può essere che la sua caduta, soprattutto se accettata o addirittura imposta dalla società ucraina. Ne hanno sentito l’odore. Zelensky era stato l’eroe della resistenza. Negli anni trascorsi da allora, che hanno messo a una prova fatale l’intero popolo ucraino, Zelensky non ha adeguato la direzione del paese al mutamento delle situazioni da fronteggiare – fino all’irruzione di un capovolgimento indecente come la rielezione di Trump. Gli uomini restano simili a se stessi mentre le situazioni cambiano. Il risultato è che la leadership ucraina, già improvvisata, come permettono le regole democratiche, è passata attraverso una compattezza imposta dalla forza maggiore della guerra e una progressiva centralizzazione, fino a ridursi, fra epurazioni, dissociazioni e dimissioni, a un ufficio di amici e complici cooptati, emarginando parlamento e istituzioni elettive e opinione pubblica.

 

Questo governo di fatto è andato a sbattere contro la propria miopia e l’esasperazione dei giovani a luglio, quando ha tentato con il blitz di una notte di esautorare il suo principale ostacolo, le agenzie anticorruzione, e definitivamente quando, negli scorsi giorni, il disvelamento di una nuova e colossale rapina ha colpito l’entourage della presidenza: amici e soci in affari fuggiti o arrestati, ministri licenziati, i più stretti collaboratori di Zelensky presi di mira. La corruzione è endemica in molti luoghi, noi ce ne intendiamo, e in Russia è la norma e non conosce eccezioni: ma rubare 100 milioni di dollari destinati all’energia in un inverno che i combattenti al fronte e i cittadini nelle case affrontano al buio al freddo e al gelo, è troppo. Giovedì 20 si aspettava che Zelensky appena rientrato fosse costretto a licenziare Yermak: a furor di popolo e di parlamentari risvegliati, anche del suo stesso partito. Fra i fautori stanno, si capisce, anche vecchi arnesi del potere, come Poroshenko, la cui inclinazione alla corruzione è altrettanto leggendaria. Ma è la pazienza delle persone, della povertà, dei bombardamenti, della caccia ai renitenti, a voler traboccare, e non in nome della resa, ma al contrario. Non è successo, il 20 novembre. A porte chiuse, Zelensky ha detto che Yermak, che gli era seduto accanto, resta. Ha potuto farlo perché non era mai stato tanto debole: mai un’emergenza era apparsa così urgente e soffocante da sospendere ogni svolgimento prevedibile. La storia si accalcava attorno a quelle porte chiuse, e veniva invocata. “Storico”, l’accordo con Macron sull’acquisto dei Rafale – benché effettivo solo di qui a dieci anni.

 

“Storico” il primo lancio di Atacms in territorio russo, finora sempre inibito dagli alleati. “Storica” soprattutto la pubblicazione del piano di Trump da prendere o lasciare: “entro il 27”, addirittura, come un antico stipendio statale. Senza tutta quella storia a premere, a qualcuno sarebbe potuto anche venire in mente di convocare di nuovo la piazza per esigere la testa di Yermak. E in un paese provato e unito da una guerra lunga e micidiale ma esasperato dai sospetti e dalle delusioni, la caduta in una resistenza e una Salò è in agguato. Dell’uomo che ufficialmente era in America a contatto coi negoziatori, Rustem Umerov, già ministro della difesa, ora segretario del consiglio di difesa, fino alla vigilia correva voce che non sarebbe rientrato in patria per scampare all’arresto. Di Yermak, che avrebbe forse protratto il soggiorno a Istanbul per continuare a trattare dei prigionieri… Erano a Kyiv, ma questo è il quadro. Ieri si è dimesso il viceprocuratore di una delle agenzie anticorrotti, Sapo, sospettato di aver avvertito Mindich giusto in tempo per farlo scappare in Israele.

Non avrebbe potuto augurarsi un momento migliore per affondare il colpo, il duo Trump-Putin. Nei giorni scorsi, in Ucraina era esplosa la discussione pubblica. Si erano letti sull’Ukrainska Pravda, sul Kyiv Independent, sul Post, editoriali di fuoco, da far invidia ai nostri menestrelli di Putin. Solo che sono ucraini, e amano l’Ucraina e le sue libertà. Fuori, colpiva l’altro giorno un intervento di Timothy Snyder, raccomandava di ricordarsi che si sta dalla parte dell’Ucraina, non di Zelensky – Snyder è tutt’altro che un avversario di Zelensky. E Zelensky fa bene a non usare parole troppo grosse e troppo velleitarie per denunciare la brutalità del “piano di Trump”, e non finire nell’angolo, permettendo che una volta ancora si dica, russi e menestrelli, che è l’Ucraina a rigettare il cessate il fuoco il negoziato e la pace. (Lo dicono ancora!) Gli alleati europei possono poco, materialmente (moralmente molto, moltissimo) contro l’imposizione americana di stare al ricatto o finire spogliati di informazioni e armi.

Un’incertezza maggiore riguarda, mi pare, il calcolo russo. Il piano di Witkoff è un ottimo affare, ma ce ne può essere uno migliore: lasciando che fallisca, e che resti a loro di andare avanti. A Pokrovsk, a Kupiansk – che ieri vantavano conquistata, mah – e soprattutto a lavorare ai fianchi l’Ucraina. L’elezione che il piano ordina, entro i cento giorni dal suo vigore, è una promessa ghiotta per il Cremlino: nessuno scommetterebbe sulla rielezione di Zelensky, se facesse l’errore di ricandidarsi. Ma averne lo scalpo per effetto di un ripudio degli stessi ucraini, questo farebbe toccare il cielo con un dito a Putin – il cielo è vicino, lo zar è lontano. Zelensky, forse, deve confidare in una conclusione, anche molto costosa, pur sapendo che gli tirerebbe addosso l’ira sincera o finta e demagogica dei troppi suoi rivali. Si intitolerebbe la fine dei bombardamenti, che è un vero triste straziato desiderio degli ucraini, e metterebbe sé e i suoi al riparo, pur senza gloria o con una gloria rimpicciolita, dai vendicatori del giorno dopo. (Ieri, a Kyiv, girava anche la voce che a caldeggiare l’introduzione nel Piano dell’amnistia universale fosse stato Umerov). Tutto è aperto ancora: tranne la vera, tenace, paziente gloria che la gente ucraina si è guadagnata. E la vergogna di chi l’ha irrisa.