(foto Ansa)

Piccola posta

Sulla chiusura del padiglione israeliano alla Biennale

Adriano Sofri

Un cartello dell'artista Ruth Patir e delle curatrici dell'esposizione annuncia la sospensione della mostra. Una decisione offerta e cristallina

Finalmente la mossa del cavallo. La decisione comunicata con un lapidario cartello all’ingresso del padiglione israeliano della Biennale di Venezia allarga il cuore – il mio senz’altro. Firmato dall’artista scelta a rappresentare il paese, Ruth Patir, e dalle due curatrici, Mira Lapidot e Tamar Margalit, dice: “L’artista e le curatrici del padiglione di Israele apriranno l’esposizione quando sarà raggiunto un accordo sul cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi”. Il cartello va oltre la discussione sui precedenti proiettandola in modo equanime sul futuro. Le autrici poi spiegano di essere contrarie ai boicottaggi culturali e alle esclusioni. Nello scorso febbraio, un appello dell’Art not Genocide Alliance, aveva raccolto più di 23 mila firme di artisti che chiedevano l’esclusione di Israele dalla Biennale, a somiglianza di quanto fra il 1968 e il 1993 era avvenuto con il Sudafrica dell’apartheid. (Anche gli artisti russi sono stati ritirati dal 2022). “ANGA chiede l’esclusione di Israele dalla Biennale di Venezia: uno Stato costruito su un sistema di apartheid, attualmente sotto processo presso la Corte Internazionale di Giustizia per ‘plausibile genocidio’ contro la popolazione palestinese di Gaza”.

Temo che l’appello non menzionasse il 7 ottobre né gli ostaggi. E’ possibile, se non probabile, che la decisione delle tre signore – le quali non ne hanno informato preventivamente il governo israeliano, che pure finanzia per metà il padiglione alla Biennale – sia stata influenzata dall’aria che tirava, compreso un frequente atteggiamento minaccioso di parti della mobilitazione pro-Palestina. Tuttavia la loro decisione, “sofferta”, come si dice, appare cristallina. La Biennale aprirà al pubblico sabato, ieri era il giorno della presentazione alla stampa. Dicono di aver discusso fino a cinque minuti prima che cosa fosse giusto fare – giusto, non conveniente per loro.

Ruth Patir ha detto che il suo lavoro “parla della vulnerabilità della vita in un momento di incredibile disprezzo per essa”. E che la loro è “una scelta di solidarietà con le famiglie degli ostaggi e con la grande comunità di Israele che chiede un cambiamento”. Un suo video di due minuti e mezzo è visibile – senza premeditazione – attraverso le finestre del padiglione. Rappresenta statue di fertilità femminile che si animano in un paesaggio di mutilazioni e lutto. (L’artista rimanda anche a una propria esperienza personale con la maternità). L’Art not Genocide Alliance ha deplorato come opportunistica la scelta di Patir.
Mira Lapidot è dal marzo 2021 direttrice del Museum of Art di Tel Aviv, dopo aver diretto il dipartimento artistico del Museo d’Israele a Gerusalemme. Ha tenuto a precisare di non essere “la portavoce di Israele”. Lei e Margalit hanno detto che “l’arte può aspettare, le donne, i bambini e le persone che vivono l’inferno invece non possono”. Adriano Pedrosa, responsabile dell’esposizione d’arte della Biennale, ha commentato: “Rispetto la decisione del padiglione di Israele. E’ una decisione molto coraggiosa”.

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