(foto Ansa)

Piccola posta

Le figlie di Sami al Ajrami sono finalmente salve

Adriano Sofri

Per ventuno volte, dopo mille difficoltà e complicazioni, avevano provato a partire e fuggire. Poi ce l'hanno fatta. Anche questa è una liberazione di ostaggi

Ieri finalmente Sami al Ajrami ha potuto raccontare la felicità di aver salvato le sue figlie gemelle, Besan e Ruba, 18 anni, e l’angoscia di averle forse, per sé, perdute. Sami fa il giornalista da Gaza da molti anni, gli era già successo, in qualcuna delle tempeste che vi infuriano periodicamente come altrove certi disastri naturali, di restare pressoché solo a informare un resto di mondo. Da quel maledetto 7 ottobre, con le sole interruzioni dovute all’impossibilità materiale di comunicare, la sua voce è stata il contrappunto quotidiano a riprese e cronache dall’alto, una striscia di mondo vista dal basso. Lo si leggeva in molti siti stranieri e italiani, è il peculiare successo che procurano certe guerre, per l’Ansa ed estemporaneamente per quotidiani riviste e servizi video, e soprattutto nel diario quotidiano su Repubblica.

Ha detto della gente falcidiata, mutilata, spostata, spogliata, umiliata e offesa. Degli altri giornalisti, tanti, in realtà, così che il conto delle loro perdite è diventato presto esoso e a volte accanito. E non ha esitato a raccontare anche la propria famiglia e a farne lo specchio di una condizione così smisurata e così accomunante. Che cosa separi lo sguardo dal basso da quello dall’alto, della veduta aerea, la casa che ti crolla addosso e il suolo che ti trema sotto i piedi rispetto all’inquadratura segnata da una crocetta e mutata un momento dopo in una ipnotica nuvola di fumo e polvere, è stato definitivamente chiaro nelle riprese aeree del formicaio, degli insetti neri che si addensavano e si disperdevano attorno ai richiami misteriosi e spaventosi dei camion di “aiuti”. Sami aveva raccontato del suo vecchio padre, ricoverato e subito dimesso per morire poco dopo di un malanno altrimenti curabile. Ha raccontato di come si cerchi di procacciarsi documenti e appoggi per essere accolti nella lista dei salvati ammessi all’uscita da Rafah, dell’aiuto sperato e ottenuto da amici stranieri, olandesi, italiani, così da pagare all’agenzia Hala – una specie di scafisti forse avidi certo benedetti, mi viene da dire – i 5 mila dollari per ciascuna delle due ragazze. E l’attesa, dopo una prima ultima cena di commiato, che si sarebbe ripetuta per ventuno volte, “con le ragazze terrorizzate che piangono e tremano per ogni bomba”. Nel giorno finalmente fortunato della partenza, Sami ha avuto il telefono carico abbastanza da seguirle passo dopo passo, trepidando e poi gioendo, e disperando, come la loro madre, come la loro nonna, di mai rivederle.

Solo alla fine del meticoloso resoconto di una giornata per lui così fatale, Sami ha scritto poche righe sulle quali il lettore simpatizzante ma distante, al riparo, si interrogava dall’inizio: “Ho potuto mettere le mie figlie in salvo grazie all’aiuto di tanti amici. Ma soffro sapendo che nessuno riuscirà a salvare tante altre ragazze e ragazzi e bambini come loro”. E’ una storia antica, la storia di gente accomunata fino a essere ammucchiata, accatastata gli uni sugli altri, le une sulle altre, e insieme autorizzata all’estrazione a sorte o al denaro, al si salvi chi può e tutt’al più, come nel naufragio, a una scelta d’amore se non di onore, prima figlie e bambini... Sami ha descritto i saluti delle sue ragazze a parenti e amiche, ha raccontato dei tanti che li avevano cercati per rallegrarsi con loro perché avevano letto i nomi di Besan e Ruba nella lista dei partenti, dei salvati, la Lista, “ormai è il bollettino più letto di Gaza”.

In qualche recesso di Gaza restano persone orrendamente rapite e violate, ostaggi in balia del delirio dei fanatici redentori di un popolo delegato al massacro. Ma anche l’uscita delle ragazze di Sami, e di chiunque altri sia riscattato e accolto nella Lista, è una liberazione di ostaggi.

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