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Piccola posta

Dopo si discuterà delle responsabilità di tutti, ammette anche Netanyahu

Adriano Sofri

Una volta che l'escalation bellica arriverà al termine si faranno i conti con le conseguenze della guerra e con la retorica che l'ha accompagnata

(La storia – che parola vanitosa è diventata – torna a grattarsi la schiena contro i confini. Non ha mai smesso, forse. Rileggere Helsinki, quasi mezzo secolo dopo, fa impressione). 

Alla fine anche Netanyahu si è rassegnato a dire che ora non è il momento, ma “dopo” si discuterà delle responsabilità, “anche le sue”. Ci si avvicina sempre più alla situazione in cui una guerra – succederà così anche per le catastrofi naturali – pretende, esige, di sequestrare la libertà personale e arruolarla in un destino collettivo. Del resto, che cos’è la libertà personale nella folla che fugge alle pendici del Vesuvio, o nel milione che si incammina al sud di Gaza. L’obiezione di coscienza, anche la più solitaria e coraggiosa, non basta a segnare una superiorità morale. Il “non in mio nome” può portare a scelte opposte, altrettanto costose. Si può stare da una parte perché è là che ci si è trovati, senza illudersi che sia la parte giusta. Si può montare su una tradotta coi propri compagni di banco. Si può salire su un carro di bestiame per unirsi alla propria gente. Ma quel “dopo” varrà per tutti, o quasi, non solo per chi ha un potere e lo usa per rimandare la resa dei conti e sperare nella prescrizione o nell’oblio. “Dopo” si discuterà delle responsabilità di tutti, o quasi, che già sono chiare. 


Si discuterà di ciò che rese possibile una situazione in cui ogni giorno era un giorno guadagnato per la vita degli ostaggi, e intanto ogni giorno portava decine e centinaia di morti da aggiungere al conto. In cui la schizofrenia era la norma. Si discuterà di come il mondo era impazzito in alcuni punti e rincretinito in tutti gli altri. Se ne discuterà fra tutti, anche quelli al sicuro delle loro tiepide case, cibo caldo e visi amici, anche quelle periferie che le pagine di guerra possono relegare alle cronache di provincia. Qualcuno ricorderà che, tardi, anche lì, e per lo più pretestuosamente, si suggeriva che a regolare la questione russo-ucraina, la questione del Donbass, bastasse rivolgersi al modello italo-austriaco dell’Alto Adige-Südtirol. Che è restato pura retorica quanto a Ucraina e Russia, ma ha appena segnato, nei giorni in cui la guerra israelo-palestinese le si aggiungeva, la riuscita elettorale dei secessionisti varii e l’avvento della pattuglia dei peggiori Schützen, rimpinguata dal ripudio dei vaccini, della “nazione sbagliata di bugiardi e di spie”, e dei gay nel cortile del maso. Lo si tratta come folklore, barbe lunghe e motociclette grosse, o non lo si tratta: ma non è una piccola lezione, che il Donbass dovesse somigliare al Südtirol, e il Südtirol giochi a somigliare al Donbass. 

(La Striscia di Gaza ha 360 kilometri quadrati. La Provincia Autonoma di Bolzano ha 7.400 kilometri quadrati). 

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