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Gli amori divisi fra Israele e Palestina, e i corpi battuti come sottofondo

Adriano Sofri

Due storie di sesso, amore e violenza in prigioni israeliane richiamano (in apparenza) l'ultimo libro di Cinzia Leone. Succede quando i romanzi non hanno bisogno di assomigliare alla vita, perché la vita è romanzesca

Dalle prigioni di sicurezza israeliane arriva uno scandalo così ordinario da sembrare straordinario. In una, al sud del paese, un detenuto palestinese, condannato all’ergastolo per un attentato mortale, avrebbe intrattenuto rapporti sessuali con una soldatessa adibita al servizio penitenziario, e con quattro sue colleghe, tutte vicine alla conclusione della leva obbligatoria. Il detenuto sarebbe stato in possesso di un telefono col quale fissare incontri, scambiare immagini, eccetera. In un’altra prigione, al nord del paese, era successo che carcerati palestinesi condannati avessero assaltato e usato violenza alle soldatesse, e che ufficiali penitenziari avessero agito da magnaccia con le agenti per tenere a bada i detenuti. A questa sarabanda si aggiunge anche l’eventualità che qualcuna delle giovani donne coinvolte fosse stata spinta a simili rapporti dal proposito di trarne informazioni. Il ministro Ben Gvir intende formare una commissione d’inchiesta governativa, congiungendo i due casi, che in realtà non hanno a che fare se non per l’onnipresenza, nel mondo e peculiarmente nelle galere, di una prepotenza del sesso. Per di più, proprio ora, nel braccio di ferro fra l’Israele bigotta del governo e le 38 piazze del sabato sera.

Vedremo: queste notizie, e l’aria che le accompagna, di cattiveria e cattività, richiamano l’attenzione sul romanzo che Cinzia Leone ha pubblicato quest’anno per Mondadori, “Vieni tu giorno nella notte”. La richiamano solo in apparenza, perché sta al centro di ambedue la questione, continuiamo a chiamarla così, del sesso e dell’amore – l’uno e l’altro, infatti. Nello scandalo della cronaca israeliana l’amore, se c’è, è solo una flebile eco in fondo al frastuono dei trasferimenti repentini, delle soldatesse rimosse, dei ferri e dei corpi battuti: occorre un orecchio fine e disincantato a distinguerlo, un ragnetto addomesticato e restato senza compagnie nella cella svuotata e disinfettata. Nel romanzo di Leone si tratta dell’amore e degli amori, e ferri e corpi battuti, micidiali come restano, sono il rumore di fondo. La scrittrice ha avuto un coraggio e un’ambizione enormi, sostenute da un’immedesimazione che colpisce e in certi passaggi intimidisce: con i personaggi e col paese, Israele, Palestina, il loro inestricato intreccio. E la loro apparente inverosimiglianza, il loro pieno di coincidenze, una furia di tenere insieme tutto senza astrazioni. Forse l’unica differenza fra la realtà e il romanzo è che l’inverosimiglianza della realtà non riesce a liberarsi di una mano di sporcizia e di grottesco. Nel romanzo, benché non sempre, può restare spazio ad altre vite. Dipende dal destino, e dall’autrice: o da un gatto nero di nome Malak (dove vanno i gatti neri di Tel Aviv quando spariscono?).

I romanzi insomma non hanno bisogno di somigliare alla vita, dal momento che la vita è romanzesca. C’è Ariel, un ragazzo italiano-israeliano, di buona famiglia laica e benestante, che viene a fare il servizio militare, e a conoscersi, in Israele. C’è Tariq, un ragazzo palestinese di Jenin, che è fuggito a Tel Aviv e non è né un collaborazionista né una spia, è gay. Dovrebbero essere nemici, sono diventati amanti. Alla prima pagina sono in un bar, hanno un mezzo litigio, Tariq si alza e va via, Ariel sta per pagare e rincorrerlo, vede un giovane accanto alla cassa, un giubbotto fuori stagione, il viso contratto di chi ha scelto la morte, il soldato Ariel gli corre addosso, tardi. Non ci sarà più un corpo cui dire addio. La storia comincia qui, dove pretende di essere finita.

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