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I quattro fratellini, il nascondiglio nella giungla e la voce dell'angelo custode

Adriano Sofri

È la favola della foresta colombiana del Guaviare. I bambini sopravvissuti per 40 giorni dopo un incidente aereo è la madre delle storie, capace di fare immaginare ad adulti urbani tutta una gamma di situazioni dalle quali tengono la distanza di sicurezza

Come voi, certo, ero stato colpito, turbato ammirato e grato, dell’avventura dei quattro bambini sopravvissuti a 40 giorni nella foresta colombiana del Guaviare. I quattro, del popolo Huitoto, sono una sorella maggiore, di 13 anni, un fratellino di 9, una sorellina di 4, e una ultima che ha compiuto in uno di quei giorni il suo primo anno.

Colpito da due cose soprattutto, reciproche: che i cuccioli riuscissero a cavarsela per un tempo così lungo, e che per un tempo così lungo i loro soccorritori (e il cane Wilson) abbiano continuato a cercarli, quando il senso comune avrebbe scelto la rinuncia e dichiarato la ricerca accanimento. Una storia bellissima, una madre delle storie, capace di fare immaginare ad adulti urbani tutta una gamma di situazioni dalle quali tengono per definizione una distanza di sicurezza: la foresta, il suo buio, il suo intrico, la sua pioggia, le sue fiere, i suoi serpenti, i suoi insetti – e la propria infanzia. Un primo pensiero: come hanno potuto farcela, bambine così piccole, una poco più che neonata – e il pensiero subito successivo – ce l’hanno fatta proprio perché erano bambine, dopo aver assistito l’agonia della madre per quattro giorni, la tredicenne pronta a far da madre, gli altri pronti a tenersi uniti. Si era saputo che avevano avuto un nonno sciamano – “sarà la foresta a decidere per loro” – una nonna che aveva insegnato loro a muoversi nella foresta e a sentirne il respiro.

Il colonnello responsabile della ricerca aveva capito che i rumori della vicinanza dei soccorritori le avrebbero messe in allarme e indotte a fuggire, era ricorso alla voce registrata della nonna per rassicurarle, aveva procurato un lungo silenzio una volta che le avevano raggiunte. I quattro piccoli avevano ricordato al resto del mondo che cosa si perde di sapienza e di bellezza con la distruzione della foresta e dei suoi abitatori – oltre al famoso ossigeno per i suoi polmoni metropolitani.

Ieri, su Doppiozero, ho letto una recensione di Giovanna Zoboli alle storie di Silvia Vecchini, “I bambini si rompono facilmente”, Bompiani, che ha in esergo la citazione da “Gli anni in tasca” di Truffaut: “I bambini sono resistenti, sbattono dappertutto, contro la vita, ma hanno un angelo custode. E poi hanno la pelle dura”. Zoboli ricorda l’avventura dei bambini colombiani e aggiunge un dettaglio che mi era sfuggito, e preferirei (e tenderei a credere) che non fosse vero: che il padre era accusato di maltrattamenti, ed era in causa con la madre per l’affidamento dei figli. (Avevo invece letto che il Cessna precipitato stava portando madre e bambini dal padre, fuggito da Araracuara, dove vivevano, per le minacce ricevute da un gruppo guerrigliero). Così quando, troppo spesso, fra i genitori scoppiavano liti, i piccoli cercavano riparo nella foresta. Dunque la disgrazia più triste che possa capitare ai piccoli, di vedere i propri genitori odiarsi e la propria madre maltrattata, era diventata la risorsa che, dopo il disastro aereo in cui sono morti i grandi, li avrebbe salvati. Nella foresta, il luogo favoloso di ogni pericolo, avrebbero di nuovo cercato un nascondiglio irraggiungibile dai veri pericoli, i grandi, il rumore dei loro elicotteri, i sospetti “kit” di sopravvivenza lanciati sull’intrico degli alberi. Poi è arrivata la voce altoparlante della nonna materna, Fatima Valencia – l’angelo custode – a persuaderli a non nascondersi più, a venire allo scoperto. A consegnarsi – senza arrendersi. Fa piacere immaginare la loro vita d’ora in poi, tanto più a chi non potrà vederne molto.

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