Veduta di Pisa (Wikipedia)

piccola posta

Il tempo allegro della Pisa anarchica e free jazz, tra amici e militanti

Adriano Sofri

Un incontro con vecchie e nuove persone in ricordo di Afo Sartori, a un anno dalla sua morte. In via San Martino, che ci apparteneva prima, prima di Lotta Continua, anche prima del ’68 – “prima della rivoluzione”, come nel titolo di Bertolucci

L’altro giorno ero a Pisa, a incontrare vecchie e nuove persone in ricordo di Afo Sartori, a un anno dalla sua morte. In via San Martino, che ci apparteneva prima, prima di Lotta Continua, anche prima del ’68 – “prima della rivoluzione”, come nel titolo di Bertolucci (e Adriana Asti) che infatti era del 1964. Ma se ne aveva una gran voglia, la si aspettava, e intanto ci si allenava, e per corrispondere all’attesa ci si chiamava Il potere operaio. Non che gli operai mancassero, le tessili della Marzotto in città, poi mangiata dall’università, come quasi tutto, e i vetrai e la Piaggio di Porta a Mare, e la Fiat di Marina – stavano assieme, operai e aria di mare. Ma quella fretta impediva di vedere e felicitarsi di un’ultima stagione della Pisa popolare, artigiana, socialista e specialmente anarchica che aveva avuto tanta parte nella storia italiana. In via San Martino noi, benevolmente accolti da militanti vecchi e gloriosi, ci riunivamo nella sede storica della Federazione Anarchica come a casa nostra. Appena di là dal Corso Italia, nella stessa metà di Pisa che si chiama di Mezzogiorno, nella deserta via della Maddalena, il 10 marzo 1872 era morto il signor Brown, un vecchietto malinconico, ospite delle Nathan Rosselli madre e figlia, solo, scarcerato, alla vigilia di un nuovo arresto, senza nemmeno il proprio nome: Giuseppe Mazzini. Però poi si seppe, e arrivarono dall’altra riva dell’Arno, la parte di Tramontana, gli scolari e gli studenti, e poi il funerale pisano (a proposito!) fu memorabile.

Su quella Pisa e sul resto della Toscana litorale sono stati scritti libri molto belli, Athos Bigongiali, “Una città proletaria” (Sellerio), Massimo Bucciantini, “Addio Lugano bella” (Einaudi). E ne ha scritti, “da dentro”, Afo, libri di quel genere in cui le singole righe contano più dell’insieme, l’ultimo appena uscito, “Autre” (ETS). Afo era del ’40. Quando era giovane e noi con lui, era soprattutto il marito di Gabri, il padre di Massimiliano e di Enea, e l’imbianchino, il riscattatore di quella categoria così malfamata dalla storia recente. Il più prestigioso scrittore murale: si trovava di mattina una scritta cubitale elegante e indignata e si riconosceva lo stile: “Lampino screanzato, restituisci il ciclostile”. Afo infatti non era operaio di fabbrica, era metà pirata metà artista, e ci fu una gran festa quando completò le pratiche per diventare “ditta”, ditta a se stesso. Era, se non l’unico, il più grande amatore e conoscitore di jazz. La musica era dappertutto, con Francesco Orlando arrivò anche Wagner. Tra noi c’erano il Bandelli Alfredo, Pierino Nissim, Ivan Della Mea che a Pisa aveva casa e famiglia, si cantava De André quando nessuno lo conosceva e poi Pino Masi lo fece arrivare in persona. Dicevo ad Afo che un altro Sartori, Eugenio, si era guadagnato un posto nella migliore storia del socialismo italiano, guidando la lotta dei braccianti del mantovano repressa nel 1885, quando era stata composta la canzone magnifica “La boje” – bolle, e dunque sta per tracimare – che appunto diceva: “L’Italia l’è malada / Sartori l’è ‘l dutur / Per far guarì l’Italia / Tajem la testa ai sciur”. Per noi era ancora un tempo allegro, e per canzonare qualcuno ne compose una che sull’aria antica della Madonnina diceva: “Sofri Adriano lo vogliamo no / lui dal partito ci tien lontano / Sofri Adriano lo vogliamo no!”, per castigare il mio famigerato spontaneismo, e poi arrivava alla morale liberata: “Afo Sartori lo vogliamo sì / perché l’è il simbolo dell’Antinori / Afo Sartori lo vogliamo sì”. E anche alla competenza enologica, e gastronomica, Afo non venne mai meno. Nipote di un leggendario pescatore di cèe, gli avannotti di anguilla squisiti (finalmente proibiti), “Arilafo baffi di stipa”, a lui doveva il nome: Afo.

C’era una quantità di mestieri collaterali alla militanza politica, trattati per lo più come appendici, “dopolavoro”, che a riguardarli da qui sembrano i più preziosi dei privilegi. Giorgio Gaslini teneva gratuitamente lezioni teoriche e pratiche di piano, e con lui capitava di passare una sera con Ornette Coleman. Davide Guadagni un giorno del 1974 partì per Roma con Guelfo e Afo, passò da Marco Ferreri che gli diede la pizza di “Non toccare la donna bianca”, Deneuve-Mastroianni, per la prima nazionale a Pisa, a San Zeno, poi andarono a Piazza del Popolo dove Afo aveva un appuntamento a un concerto di Archie Shepp, diceva – ed era vero. Dopo di che quel più illustre sassofonista di free jazz del mondo venne a Pisa al teatro Verdi per un incontro-concerto con Gaslini e Annamaria Guevara, la sorella del Che: incredibile spettacolo, e in effetti a molti sembrò una millanteria e restarono parecchi posti vuoti mentre Shepp suonava, ma intanto era successo. (Guadagni ricorda anche i conti da pagare, come al solito). Paolo Fresu, l’anno scorso, ha salutato così: “Forse molti di voi non sanno chi era Afo, ma la gente di Pisa e della Toscana lo ha conosciuto, e soprattutto, grazie a lui, ha potuto conoscere il jazz. Un uomo di un altro tempo che ha cantato la musica afro-americana innestandola nella cultura italiana. Un uomo con i baffi schietto e cordiale e soprattutto appassionato di jazz e di vino. Conservo gelosamente Suono DiVino da lui autografato, e Gente di Pisa, che esprime il suo amore per i pisani oltre che per l’uomo e per la vita. Il racconto di Afo è stato la più vasta narrazione dell’universo umano”.

Un anno dopo, al “Volta pagina” di via San Martino, si è mangiato, bevuto (chi può), suonato – Michele Barontini percussioni, Fabio Pellegrini sax soprano, Francesco Bertocchi ed Eugenio Sanna chitarra, Federico Cerrai tromba – letto – Gabriella Rago. Io ho regalato due bottiglie di Antinori, la prima a una signora che avevo preso per Gabri, perché sono rimbambito, e la seconda alla vera Gabri, inconfondibile per la nidiata di giovani militanti che la accompagnavano. Si stava bene, quasi nessuno armeggiava col telefonino.

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