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Bruno Arpaia e le parole dimenticate

Adriano Sofri

In "Ma tu chi sei", l'autore ha fatto partecipi i suoi lettori della longevità di sua madre dalla memoria perduta

Caro Bruno Arpaia, ho letto il tuo romanzo, “Ma tu chi sei”, sulla vita di tua madre e la tua morte, per così dire. Voglio raccontarti un episodio radiofonico dell’altra notte – quando non vado per il mondo vivo di vita riflessa, eminentemente radiofonica. Era la registrazione di un convegno di non so quale ente preposto ai trasporti, che si prospettava lungo e mortalmente noioso, quello che ci vuole per addormentarsi. Passata la premessa, che in Italia il trasporto merci continua a servirsi in larghissima e insensata prevalenza del trasporto su strada, il cuore della discussione stava nella cortesia dei rispettivi rappresentanti della gomma e del ferro, che si garantivano collaborazione fruttuosa e sincera, e così sia. Ma, a far brillare l’affare di una luce imprevista, il diavolo ci aveva messo lo zampino: il convegno si svolgeva nel giorno in cui un vagone merci deragliato a Firenze aveva fermato l’intera circolazione ferroviaria sulla linea principale del nostro paese lungo. Così il convegno aveva dovuto convertirsi alla meglio da remoto, gracchi, fischi e colpi di tosse. E a coronare la vicissitudine uno degli ospiti più autorevoli e attesi, non ricordo se stradale o ferroviario, aveva ripiegato sul viaggio in auto e si scusava di un ritardo ulteriore causa tamponamento. Si sa che questo genere di incidenti mettono allegria, come i capitomboli di Charlot, specialmente quando nessuno si fa male. Parecchi anni fa ormai, era successo qualcosa del genere, e l’avevo sfruttato come facciamo noi rubrichisti in cerca di fatti diversi buoni a suggerire metafore. Era un congresso di sismologi in Val Nerina, interrotto bruscamente dal terremoto. Lì non c’era solo l’effetto capitombolo, ma la smagliante lezione pratica sull’imprevedibilità dei terremoti.

Te lo racconto in memoria del tuo primo romanzo, “Qualcosa, là fuori”, quello della prossima e verosimile migrazione verso l’estremo nord di napoletani ridotti alla fame dal disastro climatico. La metafora che si accompagna così volentieri agli accidenti può immaginare un’estinzione del genere umano nel mezzo di una grandiosa e finalmente risolutiva Conferenza sul clima.

Mi piace di te il conto in cui tieni le amicizie e ne fai partecipi: Paco Taibo, Luis Sepúlveda, Pietro Greco... Ora hai fatto partecipi i lettori, cioè chiunque – come uscire di notte, inermi, in un quartiere malfamato – della longevità di tua madre dalla memoria perduta, in cui si specchiano i tuoi sintomi veri o immaginari. Dal basso del mio numeroso vantaggio, sorrido delle tue parole dimenticate. E ne ho ritrovata una, che mi era molto familiare da bambino: “cassino” – o cancellino (o cimosa, ecc.), il rotolo usato per cancellare il gesso sulla lavagna e molto di più per tirarselo addosso. Ho chiesto in giro, e ho trovato che in pochi ricordano di averlo chiamato con quel nome. Tutti invece sanno che cos’è il battipanni, anche se dev’essere meno in voga il suo uso genitoriale per minacciare (o infliggere davvero) castighi ai figli. A casa mia era solo minatorio, ma aveva ricevuto un adattamento lessicale in onore del mio fratello maggiore: Battigianni. (Se c’era uno che non meritava mai castighi, mannaggia, era Gianni).

Quanto alla tua predilezione per il parlare e scrivere della propria morte (Šostakóvič, Saramago) contro chi lo sconsiglia (Cioran), concordo con te, e dunque mi figuro l’eventualità di passare, nel più vivo di un congresso di tanatologia, dal sonno alla morte.

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