Il Compianto per il Cristo morto (Wikipedia)

piccola posta

La riscoperta del grande Niccolò dell'Arca val bene una gita a Bologna

Adriano Sofri

Vita e opere dello scultore quattrocentesco, autore del coronamento marmoreo al monumento sepolcrale di Domenico di Guzmán, nella basilica bolognese a lui intitolata. Ma la sua opera più commovente è il Compianto per il Cristo morto. Un libro

Niccolò dell’Arca (1435-1440 circa-1495) si chiama così perché la sua opera più illustre fu il vasto coronamento marmoreo, fra il 1469 e il 1473, dell’arca realizzata due secoli prima da Nicola Pisano: il monumento sepolcrale di Domenico di Guzmán, il santo fondatore dell’Ordine, nella basilica bolognese a lui intitolata – a rifinirla sarebbe venuto poi Michelangelo. Ma l’opera di Niccolò che suscita negli spettatori la più grande meraviglia, soggezione e ammirazione è il Compianto per il Cristo morto, il complesso di statue di terracotta a grandezza naturale custodito, nel centro di Bologna, a Santa Maria della Vita, che comprende il Gesù deposto, l’apostolo Giovanni, Giuseppe d’Arimatea, e, le vere protagoniste, quattro donne, la Madre, Maria di Magdala, Maria di Cleofa e Maria Salome. La posa di Giovanni è dolente e composta, e Giuseppe d’Arimatea è in ginocchio e guarda verso gli spettatori. Le donne hanno gesti ed espressioni travolte, abiti gonfi di vento, mani agitate, bocche spalancate dal dolore e dall’orrore – “furia”, è la parola impiegata a descriverle, dopo che il giovane D’Annunzio le disse “infuriate dal dolore”. (Duecentovent’anni prima Carlo Cesare Malvasia aveva detto le Marie “sterminatamente piangenti”). Dell’autore, Niccolò, molto non si sa, e questo accresce la suggestione di un capolavoro che sembra piovuto dal cielo per l’audace forza espressiva – espressionista, viene da dire – poi come placata e aggraziata nell’Arca. L’ultima monografia su Niccolò, di Cesare Gnudi, era del 1942. Ora è uscito il libro di Luisa Ciammitti, da tempo studiosa di Niccolò e già partecipe dell’ultimo restauro del Compianto, L’Arca di Niccolò. Riflessioni e documenti (159 pp., con 60 tavole f.t., Marsilio), che riprende, sulla scorta di nuovi documenti e di altri così invecchiati e trascurati da valere i nuovi, la storia affascinante di questo artista e delle sue (poche) opere rimaste. E fra loro il Compianto, subito dichiarato “bellissimo”, e appena dopo deplorato come eccessivo e quasi irriguardoso, al punto che solo un caso ne sventò la demolizione, che era stata senz’altro deliberata nel 1779, dato che le statue facevano vacillare la fede di devoti e celebranti. Niente o quasi si sa della vita di Niccolò – che era di padre dalmata, di Ragusa (Dubrovnik), e si firmava “de Apulia”, e a volte viene detto barese – prima che arrivasse a Bologna, nel 1462, quando si avvicinava già alla trentina. Solo un anno dopo stipulava il contratto per il Compianto.

Del 1469 è il contratto per l’Arca. Ed ecco un esempio dell’avventura che può capitare alle creature d’archivio, e accende di colpo il mestiere certosino con il bagliore della scoperta. Ciammitti trova la prima carta, scritta sul recto e il verso, del contratto. A distanza di tempo una sua amica archivista, Giovanna Morelli, messa sull’avviso, trova la seconda carta. Un anno ancora e una terza amica, archivista anche lei, Rossella Rinaldi, trova le carte restanti. Ogni ritrovamento avviene in reparti e faldoni diversi: una felice ricongiunzione familiare. E infine viene fuori anche la minuta, che registra la minuziosa e accanita discussione che ha preceduto l’accordo sul contratto. In una carta inedita che vi si riferisce, accanto al riconoscimento di una libertà dell’artista, si precisa che fra l’altro dovrà eseguire 21 immagini “de relievo belle”, dove quel “belle” sembrerebbe superfluo, ma fa pensare all’eventualità che i committenti le trovino “brutte”, e allora… D’altra parte c’è una clausola per la quale se Niccolò facesse un’opera più bella di quella negoziata, avrebbe diritto a un pagamento supplementare – comunque non più di “300 bolognini d’oro”. E qui si immagina la preoccupazione dei contabili, che non esageri col capolavoro, e la sicurezza di sé di Niccolò, che sa di poter andare oltre.

Il Compianto all’origine era dipinto (anche l’Arca di marmo bianco di Carrara: dipinta e dorata): non sarebbe bello ricostruirlo tal quale, com’è oggi tecnicamente possibile, e con sobria spesa, e ridipingerlo coi colori documentati, e metterlo in mostra in qualche spazio adiacente alla “grotta” dell’originale? “Lacca rossa e azzurrina nel vestito della Madonna e della Maria di Salome, gialli aranciati e rossi nella Maddalena, verde per Nicodemo, e l’interno delle bocche, lavorato e dipinto…”. Idea grossolana, direte: forse no, se non è ancora venuta a nessuno, coi tempi che corrono. C’è l’altro problema irrisolto, che spostamenti, castighi, traslochi e seppellimenti di protezione (come sotto i bombardamenti della Seconda guerra mondiale), fecero presto perdere la traccia delle originarie collocazioni rispettive delle statue, che, indipendenti come sono l’una dall’altra, permettono un montaggio pressoché infinito. Anche questo sarebbe un bell’accessorio, magari solo digitale, della visita. Fa piacere, visitando il Compianto, assistere alla reazione di chi, italiano o straniero, entra nella chiesa come per caso, sale alla cappella che lo ospita, e sbalordisce.

Niccolò può aver inventato quella sua scultura angosciosamente esagitata da sé, senza bisogno di trarla da qualche antenato. Ma è vero che le cose nascono da altre cose, anche nell’arte, che è la meno genealogica delle attività, e la domanda sugli esempi che influenzarono la novità di Niccolò, in un periodo rivoluzionario come quel Quattrocento avanzato, ha occupato sguardi e pensieri. C’era specialmente da spiegare il cambiamento di modi fra il Compianto e l’Arca, per la quale eleganza più classica si richiamava un viaggio a Venezia fra il 1463 e il 1469, e là le lezioni “lombardesca” o toscana. Come passò dall’una all’altra maniera? – aveva chiesto il maggior rivalutatore di Niccolò, Francesco Aldrovandi, in uno studio geniale del 1899. La “straziante agitazione”, aveva detto a sua volta Aldrovandi del Compianto, e in appunti inediti osservò che “la ricerca realista rasenta, è inutile negarlo, la caricatura… dal tragico al ridicolo non c’è che un passo”. Per il Compianto e il suo incontenuto dolore si sarebbe soprattutto evocata la suggestione dei grandi ferraresi, Cosmé Tura, Francesco del Cossa, Ercole Roberti, e la Pinacoteca bolognese mette a confronto l’unico frammento della decorazione a fresco di Roberti con Francesco del Cossa, dalla Cappella Garganelli nella cattedrale di San Pietro, che raffigura Maria Maddalena in lacrime con la bocca spalancata sui denti e la lingua. Ma i tempi dell’arrivo dei ferraresi non sembrano adattarsi abbastanza con quelli di Niccolò. Per il quale ragioni documentarie e di stile sembrarono ad alcuni, e sembrano più strettamente a Ciammitti, rinviare ai grandi esempi padovani di Mantegna e del tardo Donatello dell’Altare del Santo. Ma, per il periodo documentato di Niccolò, che restò bolognese fino alla morte, non c’è notizia certa del viaggio veneto, benché risulti che a Venezia sia andato a eseguire un “Presepe” in terracotta per la chiesa di Santo Spirito in Isola. Finché ci si pose il problema, si collocò il viaggio fra il Compianto e l’Arca, o dopo. Ciammitti preferisce immaginarlo compiuto prima dell’arrivo a Bologna, seguito subito dalla commissione del Compianto. E, a conferma della dimestichezza “veneziana” dello scultore, implicita già nell’origine dalmata paterna, legge originalmente, con la consulenza di un grande storico della lingua italiana come Alfredo Stussi, lui stesso veneziano, un raro documento autografo – per un prestito, nel 1493-  di Niccolò, che scrive, e dunque parla, in un linguaggio tipicamente veneto: “scempiamenti come ‘ano prosimo, quatrin, prometo’, la sonorizzazione di ‘prestado, moneda’…”.

Bene, ho scritto già troppo e non ho detto che una minima parte di quello che valeva la pena. I libri esistono per essere letti di persona. Ho una raccomandazione per lettrici e lettori: non si lascino intimidire dalle pagine più specialistiche, dalle note e gli altri apparati: saltino, e vadano al sodo. Soprattutto, prima ancora di leggere guardino le figure, così da avere bene in mente l’immagine di cui si tratta. (Poi, quando ne siano venuti a capo, Bologna e la primavera sono vicine).

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