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Quanta vergogna, tra pogrom e naufragi

Adriano Sofri

Ieri, in Israele, uno scrittore come Etgar Keret, un generale in servizio come Yehuda Fuchs, e chissà quante altre e altri, hanno chiamato “pogrom” l’assalto armato al villaggio di Huwara. Almeno si riconosce alle cose il loro nome

Certi avvenimenti del mondo sono capaci di dare un intimo dolore e un’intima vergogna, di farsene sentire personalmente responsabili. Si ha vergogna di quella spiaggia di Steccato di Cutro, e si rinuncia anche, dentro di sé almeno, a consolarsene col disgusto per le colpe provate, di fatti omessi e di parole pronunciate, di altri, indegni della tragedia che riescono a provocare o a non impedire. Ci si riconosce nelle parole di un ammiraglio in pensione, ma la sproporzione e la mortificazione restano. Ieri avevo pubblicato una ricostruzione della circostanza, un giorno e mezzo del 1903 a Kišinëv, dalla quale la parola pogrom aveva smesso di appartenere a una lingua ed era entrata nel linguaggio del mondo intero. Ieri, in Israele, uno scrittore come Etgar Keret, un generale in servizio come Yehuda Fuchs, capo delle truppe di Cisgiordania, e chissà quante altre e altri, hanno chiamato “pogrom” l’assalto armato di centinaia di coloni imbestiati e affiancati da militari, al villaggio di Huwara, 7 mila abitanti nel governatorato di Nablus, che ne ha ammazzato uno, feriti centinaia, bruciate case e auto. Dopo, un ministro del governo israeliano, Bezalel Smotrich, ha dichiarato che “Huwara va cancellato”. Poi ha dovuto “precisare”, come un qualunque ministro degli Interni italiano, che va cancellato dallo Stato, non dai privati. 

Un esponente dell’opposizione ha ammonito che “gli ebrei non compiono pogrom”. Non è vero, ahimè, è importante almeno che quando li compiono li chiamino col loro nome, e nessuno può farlo come loro. Quanto agli altri, a me per esempio, a noi, non se ne ha meno vergogna. 

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