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piccola posta

Il giornalismo svilito, indistinguibile dai commenti sui social e dalla politica

Adriano Sofri

I giornalisti che commentano la politica in televisione hanno, quasi senza eccezioni, opinioni perentorie e giudizi risoluti, non privi di sarcasmo. Ormai l'unica cosa che li distingue dai politici è l'esonero dal voto

Interrompendo un lungo digiuno, ho ascoltato previsioni e commenti alle elezioni politiche. Pronunciate per lo più da persone che lo fanno da molto tempo, da una vita, come si dice, e ci sono invecchiate dentro, ma bene, si direbbe, con un certo agio. Ce ne sono di più giovani, e la meraviglia della televisione permette di vederle invecchiare in diretta, a occhio nudo: in capo a un dibattito, è come se avessero compiuto una dozzina d’anni. Hanno, quasi senza eccezioni, opinioni perentorie e giudizi risoluti, non privi di sarcasmo. Anche quando, ogni tanto, le loro opinioni divergono o addirittura si contrappongono, alla fine qualcosa le unisce, una specie di soddisfazione, di compiacimento. Viene il dubbio che abbia a che fare col fatto che non sono mai votate, non si dimettono mai, o quasi. E mostrano una invidiata sicurezza di sé quando auspicano, esigono o irridono le dimissioni altrui, date o non date. C’è chi pensa che si tratti di una prerogativa – un’immunità, diciamo – del giornalismo. Però, a guardare le cose a occhio nudo, si direbbe che il giornalismo non abbia più niente, e da tempo, che lo distingua dalla politica professata, se non questo esonero dal voto. Sì, si può obiettare che passa attraverso la verifica del mercato, degli spettatori, degli ascoltatori, dei lettori, delle lettrici, delle spettatrici, delle ascoltatrici: ma non è facile da sostenere. Giornali, telegiornali, dibattiti, vanno spesso a rotoli quanto all’uditorio, ma non battono ciglio: voce e cipiglio non rinunciano alla perentorietà. 

C’è anche un altro lato, il lato opposto, che toglie al giornalismo la sua pretesa specificità: sui media sociali le persone dicono la loro con altrettanta perentorietà e cognizione (o ignoranza) di causa. Ieri tra i social che ho guardato con più curiosità del solito c’era un gran numero di commenti e giudizi drastici, e molto spesso intrisi di sarcasmo oltre che di sentita compassione di sé come di fedeli traditi. Credo che fossero sinceri sincerissimi, ma lasciava interdetti il fatto che commenti e giudizi fossero larghissimamente divergenti se non contrapposti. Lo stato d’animo del genere “L’avevo detto io”, o “Che altro volevi aspettarti”, o “Come volevasi dimostrare”, eccetera, cozza un po’ col fatto che quello che avevi detto e che si voleva dimostrare e che altro volevi aspettarti è una varietà di cose incompatibili. Io non voto più da anni, io sono stufo di votare turandomi il naso, io voto per gli unici che pur senza possibilità di farcela mi rappresentano (e gli unici sono poi un certo numero), io voto democratico perché occorre essere responsabili e fare argine, io voto Azione perché… E così via. E anche in questo caso, dei social media, e delle persone supposte comuni cui essi danno la parola attenuando fino a estinguerla la distinzione dal giornalismo (a parte l’Albo e l’Inpgi, peraltro in crisi) manca la verifica, a meno che non la si accrediti ai Like, i Like come i voti, ma viene da ridere. E anche in questo caso, con una tal gamma di nette distinzioni e contrapposizioni inconciliabili, si sente che qualcosa le unisce, una specie di soddisfazione. Una gran pena, una sensazione di amaro tradimento, un’offesa: così appagante, così aliena dalla dimissione.

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