Militari ucraini si riparano vicino alla linea del fronte, nei pressi di Kharkiv (LaPresse)

Piccola posta

In Ucraina morti e feriti civili non sono il frutto di errori non voluti. È il contrario

Adriano Sofri

Tra le informazioni unanimi (la forza dell'artiglieria russa e la combattività ucraina) e quelle più discusse (il valore della russofonia dell'est), il punto rimane lo stesso: questa guerra è una strage micidiale di vite

Odessa, dal nostro inviato. Si capisce che sia arduo raccapezzarsi sull’andamento della guerra d’Ucraina. Vengono date informazioni opposte sul numero di uomini (e donne, le pochissime) schierati sui due fronti. Ci sono informazioni unanimi sulla quantità soverchiante di fuoco d’artiglieria rovesciato dal fronte russo sul territorio ucraino – “dieci proiettili a uno”, secondo un modo di dire diffuso. Superiorità che corrisponde all’enorme magazzino di armamenti “sovietici” ancora disponibile ai russi

Informazioni altrettanto unanimi sulla combattività delle opposte forze, incomparabilmente più motivate quelle ucraine, che si battono per la propria terra e i propri cari, non contro una terra altrui e contro le famiglie d’altri. (Una analoga motivazione agisce almeno per una parte dei combattenti delle repubbliche separatiste, spinti peraltro in ogni prima linea, coi rinnegati ceceni dietro a farsi i selfie). 

A questo quadro si oppone l’altro, degli armamenti speciali, i lanciarazzi Himars e gli equivalenti M270, capaci di invertire il bilancio delle forze d’artiglieria, grazie alla gittata, alla precisione e alla rapidità di movimento. E’ così che gli ucraini possono colpire, e hanno cominciato a farlo, le retrovie delle forze russe, in particolare i depositi di munizioni e armamenti. Solo che gli Himars forniti all’Ucraina sono a oggi (citiamo Daniele Raineri, che cita a sua volta le fonti più attendibili) 8; alla fine di luglio si prevede che saranno 20; secondo le autorità militari ucraine ne occorrono 100, voci diverse al loro interno dicono: “Datecene 60 e sbrighiamo la partita”. 

Ho scritto questo riassuntino non per fare anch’io mostra di qualche rudimento balistico, dal quale mi guardo, ma per spiegare lo sconcerto col quale persone di poca o nulla competenza tecnica ma di esacerbata passione umana devono guardare allo sviluppo del conflitto. Un po’ come guardare una gara di Formula 1  e non aver mai avuto la patente – è il mio caso. La domanda profana inevitabile è: ma allora decide tutto la potenza dei motori? Gli esperti rideranno, e anch’io so che contano i meccanici, le gomme, la spericolatezza e l’abilità dei piloti, la Fortuna!, e chissà che altro. Ma in una guerra di artiglierie in cui si bombarda a distanze crescenti senza badare a spese diventa più difficile distinguere la parte del valore umano e dell’intelligenza strategica. E davvero 60 Himars chiuderebbero la partita?

E perché li centellinano? E caso mai, che cosa ci si aspetterebbe dall’altra parte? E in ogni caso, come conciliare questa apparente dilatazione del fronte, una crescente terra di nessuno, con la reciproca falcidie di vite di soldati? Perché c’è questo altro dato da mettere nei conti. Ancora venti giorni fa gli ucraini sostenevano di aver ucciso 34.700 soldati russi – cifra né confermata né smentita dai russi. I quali contemporaneamente dichiaravano di uccidere nel solo Donetsk 300 fra militari ucraini e “mercenari” al giorno. Dei bambini sapete. (Nella stessa data era arrivata anche la cifra di 3.000 – tremila – delfini morti nel Mar Nero e spiaggiati per effetto di sonar, esplosioni, disorientamento, fame). 

Dunque la guerra avocata dalle artiglierie e dalla gara degli armamenti più evoluti e più indifferenti ai costi umani e materiali continua a essere una micidiale strage di umani. Militari e civili. Appartengo al novero di chi non crede affatto che morti e ferite di civili siano frutto di errori e danni collaterali non voluti. Al contrario, credo che, soprattutto da parte russa (se non altro perché colpire nel mucchio è una conseguenza ferreamente logica del progetto di deucrainizzazione) si uccida e ferisca per uccidere e ferire e terrorizzare e mettere in fuga. Sul punto ho un altro interrogativo, che riguarda il rapporto fra vittime militari e civili. Evidentemente l’utilizzo di civili, e di luoghi deputati alla cura delle persone – ospedali, scuole, edifici religiosi – per farsene scudo, è un crimine di guerra e prima ancora una oscena prova di cinismo: merita solo perciò di perdere, chi vi ricorre. Ma ci sono situazioni più incerte. L’altroieri è stato bombardato un edificio residenziale a Chariv Yar, a ieri il bilancio dei morti era di 47 persone. Paolo Brera, per Repubblica, ha più severamente sollevato il problema: nell’edificio si erano accasati anche dei militari. Ma basta che dei militari occupino una parte di un edificio civile svuotata dai suoi abitanti, in una cittadina che non si trova sul fronte, a giustificarne il bombardamento indiscriminato?

Non ho una risposta, e nemmeno le conoscenze necessarie a darsela, ma ho apprezzato che Brera ieri ci sia tornato intervistando il sindaco di Kramatorsk: 
“A Chasiv Yar sono stati estratti 43 /allora/ corpi dalle macerie: molti erano soldati in un palazzo civile. . . 
“Non commento, è un’altra città”. Anche nell’hotel Industria di Kramatorsk, chiuso e occupato dai soldati sono morti due civili. Perché non imponete che i militari si accampino fuori?
“Se la logica è questa, anche i supermercati sono a rischio: dovremmo impedirgli di fare la spesa? Ci sono sempre mezzi militari posteggiati davanti: forse per questo diventa un obiettivo legittimo?”. 
Perché non vengono imposte regole che proteggano i civili?
“A Kramatorsk i russi hanno colpito una stazione ferroviaria con 4 mila profughi in partenza. Ci uccidono a prescindere. Hanno colpito la nostra scuola: che obiettivo è una scuola?”. 
Sono chiuse da febbraio. Molte sono usate dai soldati.
“Non c’era nulla di militare. A 200 metri c’è una caserma di polizia. Hanno sbagliato mira? Non è comunque un obiettivo legittimo”.

 

Voglio accennare a un altro tema: la presenza di una parte di popolazione civile “filorussa” nei territori dell’est, teatro provvisorio dello scontro più accanito e delle “avanzate” russe. Stamattina ho incontrato, con gran piacere, due dei più impegnati corrispondenti da quelle zone, Riccardo Coletti, che è stato in tutti questi mesi una colonna del reportage di guerra per la Stampa, e Sabato Angieri, che lo è per il Manifesto e per alcune televisioni (l’avevo visto, un po’ spaesato, in una puntata di Giletti) e che è in Ucraina dal 1° febbraio: gran fiuto. Vengono da Bakhmut, dal centro del fuoco. E’ la prima cosa di cui abbiamo parlato, e di cui si legge efficacemente nei servizi di altri giovani, ma già veterani del Donbas, come Andrea Sceresini. In quei territori, e sia pure con un’immissione forzosa di persone dalla Russia per modificare a proprio vantaggio la composizione della popolazione, si è svolta una vera guerra civile, rovente in alcuni periodi, raffreddata in altri, feroce sempre. La russofonia non vi è affatto decisiva, e altrove sta assieme a un patriottismo ucraino strenuo. Questa è la situazione, e non avrebbe senso disconoscerla. Altra cosa è scorgere una stanchezza e un desiderio di pausa tra umani che hanno perduto tutto e anche la possibilità o la forza di fuggire. Altra cosa è sentir ventilare referendum in luoghi spogliati della loro gente e messi sotto il tallone di ferro – come a Kherson. Altra cosa ancora è sentir elargire la cittadinanza russa: in dono, ai liberi cittadini ucraini, per offenderli. In dono, alle migliaia di bambini deportati oltre la frontiera, cui si insegnerà con le buone o le cattive a dimenticare da dove vengono. 

Sono dunque molte le cose cui pensare, anche a non restare all’aria condizionata. Siamo in piedi, ma su una gamba sola. E guardiamo da un cannocchiale, un po’ di qua, un po’ di là. Di là ci stanno facendo vedere, vogliamo vederlo, il Big Bang. Quello dell’inizio, 14 miliardi di anni fa. In Russia si chiacchiera di quello della fine. Un piccolo, piccolissimo, infimo bang. Vergognoso. Pensateci, prima di aggiungere un commento. 

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