Una scena da "Il buco in testa" di Antonio Capuano 

piccola posta

Oltre Sorrentino. La Napoli di Antonia Custra e le sue tante carceri

Adriano Sofri

Che senso ha decretare quale sia la versione più "vera" della città partenopea? Se ne possono conoscere tante diverse. Dal film "Il buco in testa" di Antonio Capuano a "Ariaferma" di Leonardo di Costanzo

Penso che ognuno abbia la Napoli che si merita. È una città di cui essere gelosi, si capisce, ma bisogna farsene una ragione. Che senso ha decretare che quella di Sorrentino sia o non sia la vera Napoli? È la sua, ed è ospitale. Avevo visto, parecchi mesi fa, l’ultimo film di Capuano, “Il buco in testa”: solo sul pc, non vado al cinema da un quarto di secolo. Mi era piaciuto molto. Una delle Napoli che ho conosciuto, attraverso ospiti preziosi – Carla e Cesare Moreno e i ragazzi di strada di Ponticelli e Barra, Pasquale e l’officina di Pietrarsa, Nino, Patrizia, Mimmo, Enzo e gli altri di Portici – è quella in cui è stata girata gran parte del film, San Giovanni a Teduccio, Torre del Greco. Capuano è molto forte, e fortissima è la sua protagonista, Teresa Saponangelo. 

Non so se il film voglia dire qualcosa, se abbia una storia – ho in testa la domanda che Sorrentino fa gridare all’incolpevole Capuano: sul degrado delle periferie, sulla camorra, sulla scuola, sul terrorismo, sul pentimento del terrorismo, su tutto. So piuttosto che cosa vuole far vedere. Fa vedere una donna irriducibile e il suo casuale antagonista, il vecchio ex combattente che uccise suo padre, riducibile, riducibilissimo. La donna non è così perché le ammazzarono il padre poliziotto, assurdamente, quasi per un accidente fotografico: la donna è così, e le ammazzarono anche il padre. La Milano del viaggio di lei, e il vecchio ex militante, che del resto è il formidabile Tommaso Ragno, sono un’escursione, riempiono la storia senza cedere alla tentazione di tirarne la somma, servono a partire e tornare a Napoli. Ho avuto una riserva difficile da spiegare, riguarda l’indiscrezione. Il personaggio di Capuano è calcato – “liberamente”, come dice – su Antonia Custra, la figlia del poliziotto ucciso in una manifestazione a Milano nel 1977, quando avevano venticinque anni lui e diciannove il manifestante condannato come lo sparatore. Capuano ha parlato a lungo, senza incontrarla, con Antonia, che è morta per un cancro nel 2017, quando aveva quarant’anni. Poi Capuano ha fatto il suo film, “ispirato liberamente” alla storia di Antonia. Penso, ma è una sensazione senza pretese, che il suo personaggio avrebbe potuto esistere senza il rimando a quella ispirazione, e che la dura tenerezza con cui è scavato non avrebbe toccato la verità di Antonia. Così, è sembrato che Capuano avesse fatto un film sul terrorismo (milanese) o sulle sue conseguenze (napoletane): piuttosto che un gran film su una donna e la sua città (ho letto comunque che la famiglia di Antonia era partecipe e commossa alla visione del film).

Il terzo film l’ho appena visto, è “Ariaferma”, di Leonardo di Costanzo. Se ne parlò quando fu presentato fuori concorso a Venezia, ora è arrivato su Sky e su Amazon Prime. L’ho guardato non come chi conosce la galera: esistono altrettante galere quante Napoli, e ciascuno che vi sia entrato ha conosciuto la sua galera. Quella del film, il carcere smesso e guasto di San Sebastiano a Sassari, è una galera astratta, segnata dalla circostanza d’eccezione: la dilazione della chiusura che fa di un pugno di detenuti e di agenti una piccola società umana che aspetta che qualcosa si compia, senza sapere se e quando. L’attesa prepara gli uni e gli altri, carcerati e carcerieri, al compimento, un cenacolo congiunto nella rotonda, dopo che è saltata la luce elettrica. È molto bello. Tra i capi delle due comunità, che contano sulla bravura di Silvio Orlando e Toni Servillo, c’è un confronto asciutto e teso che alla fine rivela l’origine comune dalla quale sono venuti due destini opposti. Anche qui, è di Napoli che si tratta. Di Napoli, e dei suoi modi di finire in un’ultima cena di galera.