“Questi fantasmi!” è una commedia in tre atti, scritta nel 1945 e interpretata da Eduardo De Filippo nel 1946 (foto Wikimedia commons) 

Il Foglio del weekend

Napoli e i nostri fantasmi

Francesco Palmieri

E’ un bambino vestito da frate. Ma il monaciello, evocato dal film di Sorrentino, è pure l’archetipo napoletano della vita che è casa e rifugio

“E che fare, di tutte queste fantasticherie, quando il mondo e l’arte chiedono uno studio limpido e schietto della verità, quando solo i grandi e piccoli dolori umani hanno bisogno di una storia, mentre la storia della nostra fantasia non interessa nessuno?”
Matilde Serao, Leggende napoletane

 

Il bambino napoletano smette presto di credere a Babbo Natale e alla Befana, come tutti i bambini del mondo dotati di senso comune o perlomeno di smartphone. La differenza è che, fattosi adulto, un certo Puer neapolitanus continua, o comincia, a credere al monaciello. Non tutti hanno una fede dichiarata, anzi pochi: c’è chi finge di non crederci, chi vorrebbe crederci ma non si reputa abbastanza stupido per farlo e chi, semplicemente, si disinteressa a monstra vel prodigia. Provvisto di un’indole ancor più infantile perciò incline al dispetto, e di un’imprevedibilità sperimentata nella storia, il folletto vestito da frate, il coboldo domestico, l’erede dei lari latini e del duende spagnolo non si lascia suggestionare dagli umori dell’opinione pubblica e continua la sua vita. Che gliela riconoscano o che la neghino, lui, il monaciello, d’altro non si preoccupa che di esistere ancora.

Finanche impersonato da un attore a beneficio dei turisti che visitano i meandri della Napoli sotterranea, effigiato nei ciondoli d’argento e modellato in terracotta dai pastorai del centro antico, o richiamato in qualità di soprannome per un personaggio della serie televisiva “Gomorra”, finanche così, declinato in finzione, il monaciello continua la sua vita. E senza che lo voglia, sull’onda lunga del brand napoletano, sta valicando i confini dell’habitat tradizionale per diventare conosciuto nel resto del mondo. Ma il monaco bambino non se ne inorgoglisce, anzi “nun se ne fotte proprio” perché ci è abituato: gli accadde già di essere convocato nei teatri ottocenteschi per spaventare Pulcinella, o nella prosa d’autore e in poesie che ne descrissero presunta nascita e presunta morte, senza che nessuno probabilmente abbia mai indovinato.

La sua ombra svelta, stando ai numerosi resoconti, da circa cinque secoli può essere intravista nelle sere d’inverno, quando la nebbiolina dell’umidità carezza i vicoli di Napoli e gli androni dei palazzi, rendendo scivoloso il basolato. O può apparire inaspettata come brivido dentro le notti estive mentre il calore fa schioccare i mobili, le travi dei soffitti e i tendini dei vecchi addormentati. Non frequenta gli edifici più nuovi, poveri di storia e storie, ma quelli dove si può affacciare sui cortili che una volta ospitavano le stalle, quelli che insistono sulle cavità di tufo su cui s’aprivano le canne di pozzo delle cucine antiche. Il monaciello predilige, precisava a fine Ottocento l’avvocato folclorista Luigi Correra, le “vie tortuose e strette di Sant’Agostino alla Zecca, di Forcella, e dei Mercanti”. “Per i vicoli che da Toledo portano giù, per le tetre vie dei Tribunali e della Sapienza, per la triste strada di Foria, per i quartieri cupi e bassi di Vicaria, di Mercato, di Porto e di Pendino, il folletto borghese estende l’incontrastato suo regno” ribadì Matilde Serao, quando scrivendo da giovane fece cronaca nera della leggenda e immaginò che il monaciello fosse l’indesiderato, deforme frutto dell’infausta unione tra una Giulietta e un Romeo napoletani al tempo degli Aragonesi.

Come nel ghetto di Praga un’esplosione psichica collettiva ridestava ogni trentatré anni il Golem d’argilla del rabbino Löw, così a Napoli con frequenza maggiore ’o munaciello è risvegliato dagli umori volatili e mediterranei, da tensioni oniriche e passioni, speranze e rimembranze con cui una corrente d’eros anima nuove o stagionate Cenerentole. Tuttora chi vuole, anche se le cucine Ikea hanno soppiantato i focolari, vede o sente il monaciello e ne registra i risultati. Possono consistere in dispetti e fastidi, come capelli tirati, lenzuola scompigliate, oggetti preziosi nascosti. O al contrario in favori e regalie, per esempio piccole somme di denaro, ispirazioni per i numeri al lotto, risoluzione di inconvenienti domestici. C’è chi afferma che il folletto sia propizio se porta un cappuccetto rosso e malevolo se ha invece la scazzetta nera, fondando sulla simpatia e l’antipatia il proprio unico criterio di obiettività. “E’ per questa sua strana mescolanza di bene e di male, di cattiveria e di bontà, che il munaciello è rispettato, temuto ed amato” notava la Serao. “E’ come un bambino”, avvertono le testimonianze di chi ha goduto o sofferto per i suoi capricci, ma è un bambino con le malizie, l’esperienza e le fisime di un vecchio monaco sensibile alle forme femminili. Lo rappresentò così Roberto De Simone nella favola in musica ‘La gatta Cenerentola’, mentre la devozione popolare cristiana lo depurò e sovrappose al santo martire Pantaleone, al quale le fanciulle vergini recitavano quattro Gloria e tre Pater per vincere al Lotto il terno con cui comprarsi il corredo nuziale.

E’ un bambino che non è potuto nascere, asseriscono alcune credenze. Un bambino represso o soppresso che non si riesce a guardare in faccia per paura, di cui s’avvertono soltanto i passi provenire dal soffitto o dai corridoi reconditi dell’animo, perché crescendo abbiamo preferito considerarlo morto e sperarlo vivo, come la proiezione profonda di ciò cui abbiamo rinunciato di noi stessi, come le fantasie alle quali scegliemmo di non credere in nome di una “realtà scadente”. Perciò Paolo Sorrentino evoca il monaciello e lo vede la zia del protagonista Fabietto Schisa, che pazza non è, e poi lui stesso perché ci crede nella scena finale del film “E’ stata la mano di Dio”. Il monaciello si sfila il cappuccio e lo saluta mentre è sul treno che va a Roma, come il piccolo aiuto ferroviere Guido alla stazione salutò Moraldo che andava via ne “I vitelloni” di Fellini. E gli sorride pure perché sorride ogni bambino, recuperato alla vita, quando si è deciso di non confinarla più in quella realtà scadente.

E’ una proiezione individuale che può diventare collettiva o viceversa, e se non chiude un film lo apre. Come Luigi Magni fece per “’O Rè”, con Francesco II esule a Roma dopo aver perduto il trono, che incapace di riconquistarlo o diventare padre di un eroe insegue assieme al maggiordomo lo scalpiccìo del monaciello tra i saloni bui di Palazzo Farnese. Magnifica interpretazione di Giancarlo Giannini e Carlo Croccolo, alla patetica ricerca di un mondo onirico che per forzata distanza da Napoli sfiorano ma non agguantano più. Non a caso si riverbera nel grande romanzo del rimpianto borbonico, “L’alfiere” di Carlo Alianello, la nostalgia per quel folletto “sempre allegro e sempre dispettoso”, che tirava le lenzuola alle zitelle, pizzicava le giovani “per amore” e le vecchie “per dispetto”, ma che con il crollo del Regno sembrava non dovesse tornare mai più. Nostalgia individuale e collettiva, inconfessata ma pressante accompagna chi non è più capace di incontrare il monaciello e teme che i tempi siano troppo cambiati per ritenerlo vivo dentro o fuori di sé. Perciò il folletto è stato spesso considerato in estinzione: Anna Maria Ortese, che lo percepì a Napoli quand’era acerba, scrisse che lo uccidevano “l’ingresso, nella nostra cultura, del pensiero francese, i progressi della scienza che mirava con un impetuoso colpevole entusiasmo a demolire la credenza nell’irreale ch’era tanta parte della nostra vita; e infine i provvedimenti di Santa Chiesa, che mettevano in guardia i fedeli contro questi spiritelli diabolici, che s’insediano nelle famiglie, e con la loro condotta irreligiosa corrompono la gioventù”. Si vedevano così i monacielli “passeggiare con aria stanca sull’orlo dei tetti; o più spesso rifugiarsi negli oscuri angoli della casa, dove traevano canzoni e lamenti angosciosi”. E “molti colse la morte, ed essi furono sepolti in qualche solitario giardino della città, e il sole e la musica dei posteggiatori ne visitarono più volte la mesta dimora. Altri partirono, non so quando, e mai più fecero ritorno”. Questo la scrittrice raccontava prima dell’ultima guerra, però il poeta Ettore De Mura, massimo storico della canzone napoletana, ritrovò il monaciello nel ’44 e lo fece morire suicida per lo sconforto della città straziata dai bombardamenti: “Chiagnenno se fa ll’ultima resata, / guarda ’o Vesuvio e ce se mena ‘a dinto”. 

Il tuffo nel cratere avrebbe suscitato la famosa ultima eruzione descritta anche da Curzio Malaparte ne “La pelle”, che segnò per il vulcano la perdita del secolare pennacchio di fumo la cui vista è consegnata adesso soltanto alla memoria dei più anziani. Fu, quello di De Mura, lo stesso sconforto che spinse Michele Galdieri a lamentare, sulle rovine del “Munasterio ’e Santa Chiara”, la fine della “Napule comm’era” e le sue macerie fisiche e morali. Fu lo stesso sconforto che ispirò a Eduardo l’amara conclusione della commedia “Napoli milionaria”. Come se il monaciello non potesse sopravvivere alla caduta del Regno, all’avvento della scienza, al dramma collettivo di una guerra.

E invece poi… Poi si scopre che sta lì, basta metterci attenzione per credere. Parlarne perché esista. Fa niente che ora le guide turistiche spieghino la leggenda del monaciello con la storia dei pozzari, ossia degli specialisti incaricati nei secoli scorsi di provvedere alla cura delle acque sotterranee. S’inerpicavano sui gradini di tufo agili e incappucciati per proteggersi dall’umidità sin dentro le case a rubacchiare cibi, gioielli e clandestini amori femminili, tornando a dileguarsi come fantasmi nel sottosuolo. Fa niente che come la pizza di Sorbillo, Pulcinella, i pastori di San Gregorio Armeno e il Caffè Gambrinus anche i monacielli rischino l’assorbimento nell’oleografia di una città giudicata difficile, bizzarra e con un piede sempre fuori della Storia. Il monaciello “non se ne fotte proprio” e vive la sua vita alla faccia di chi lo vuole morto o pensa di addomesticarlo, vive assieme al suo corrispondente femminile, la Bella ’Mbriana, fata casalinga ispirata alla dea Diana cui Pino Daniele intitolò una canzone nel 1982, restata fra le sue memorabili. Lei custodisce le dimore restando appesa a un filo d’oro, lei nell’oscurità ha visto “crescere e cantà”, “ridere e pazzià”, “chiagnere e jastemmà”, persino “fottere e scannà”, lei insomma custodisce le secolari intimità di questi umili o nobiliari palazzi sopravvissuti alle bombe, alla monnezza, ai b&b, alle insolenze camorriste, al chiasso turistico e all’indifferenza locale. E’ l’ombra che resiste alla fosforescenza degli schermi tv e dei pc, alla latitanza della fantasia che si mineralizza sugli smartphone, alla deperibilità di Babbo Natale e della Befana. Persino all’assenza dei racconti delle nonne che sommuovevano fino a epoca recente, come rimpianse il poeta Pasquale Ruocco, i sogni dei bambini quando avevano ascoltato “’o cunto d’’o Munaciello o d’’a Bella Mbriana”, sul filo del vento serotino che fischiava dal bosco di Capodimonte. Lui ricordava così.

La nostalgia paventata come ferita irreversibile fece dire a Giuseppe Marotta che “tutto ciò che mette conto di vedere o di sentire, c’era una volta e non si ripeterà: nel medesimo istante in cui appare o succede, il meglio di ogni cosa c’era una volta, c’era una volta”. Fosse solo per questo ammonimento, il monaciello come archetipo napoletano sollecita il verbo al presente anziché all’irrimediabile passato o a un inesplicabile futuro. Quel folletto c’è. Continua a manifestarsi. Piuttosto il dubbio circa l’esistenza riguarda chi, pensando di esserci, non è mai stato in grado di vederlo perché distratto dalle troppe luci non sa più leggere la penombra. Né quella dei palazzi né quella magica assai dell’animo. Perciò era usanza, e in certe inattuali famiglie lo è tuttora, salutare la Bella ’Mbriana rincasando. Perché non sia solo lei a vederci “crescere e cantare”, ma anche noi a restituire lo sguardo a chi ci ha visto nascere e vedrà morire mentre qualcuno nascerà. Per non essere “scadenti”, come una realtà senza nient’altro, bisogna sempre tornare a guardare.

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