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piccola posta

La voce della coscienza collettiva ci dice: il ramo su cui sediamo sta crollando

Adriano Sofri

E lo stiamo segando noi. Forse l'espressione l'ha inventata Bertolt Brecht, lui non aveva d’occhio la deforestazione dell’Amazzonia, che oggi rende più pregnante la metafora. Che oggi ci descrive meglio dell’idea opposta: il Progresso infinito e provvidenziale

Voglio fare l’elogio dell’espressione: segare il ramo su cui si è seduti. Non ce n’è bisogno, direte, non c’è discorso che non se ne faccia bello. Infatti: ma ora, con questa voga irruenta e magnifica degli alberi. Per ogni milione che se ne sega ce n’è un miliardo che se ne promette. Non so se Bertolt Brecht l’abbia inventata lui l’immagine, o gli preesistesse: “Segavano i rami sui quali erano seduti e si scambiavano a gran voce la loro esperienza di come segare più in fretta, e precipitarono con uno schianto, e quelli che li videro scossero la testa segando e continuarono a segare”. Uno lo vede, l’omino tenace che sta a cavalcioni sul ramo e lo sega dalla parte sbagliata. Fa molto ridere (fa riderissimo, dice una mia amica ragazza). Da quando l’idea opposta, quella del Progresso infinito e provvidenziale, ha ceduto, viene la tentazione di raffigurarsi l’intera storia del genere umano come un metodico segare il ramo su cui sta seduto, ormai vicino al traguardo. Brecht non aveva d’occhio la deforestazione dell’Amazzonia, che oggi rende più pregnante la metafora. 

La vocina della coscienza che muove fervide moltitudini a invocare la salvezza del pianeta, conta di aver dalla sua l’evidenza: siamo tutti sulla stessa barca – sullo stesso ramo. Quando crollerà definitivamente, porterà giù tutti, i giusti e gl’ingiusti, i poveri e i ricchi. Illusione sperticata. Ascolto il ministro Cingolani, tutto quello che dice, in particolare le meraviglie sulle innovazioni tecnologiche, quelle intraviste, quelle inimmaginate ma che arriveranno – il Progresso – e spio solo il momento in cui non riuscirà più a girare attorno alla questione, che ha già evocato in un primo assaggio: il nucleare (quello che seduce l’intelligenza collettiva di questo giornale). Ieri ho letto Giorgio Parisi sul Corriere. Non che confidi nella infallibilità sua o di chiunque altri; un premio Nobel a coprire le peggiori cazzate non si nega a nessuno, come mostra il caso del vaccino. Ma da Parisi comprerei una bicicletta usata. “Tutto dipende dal Paese. Se Chernobyl fosse stata in Val Padana, con una popolazione molto superiore a quella zona dell’allora Urss, avrebbe provocato milioni di morti. In ogni caso è da escludere in Paesi come l’Italia densamente abitati. Per la quarta generazione degli impianti nucleari a fissione di cui si parla perché più sicuri, adesso esistono solo prototipi che devono dimostrare la loro qualità; tuttavia sono sempre da escludere dove vive la gente. È diverso se i cinesi vogliono realizzarle in zone remote”. Ecco. L’atomica da remoto è già più conversabile – ma la Francia è vicina, e tiene il fiato sul collo di Draghi.

Insomma: quando sia chiaro che il ramo sta per cedere, e che andremo tutti a gambe all’aria, ricchi e poveri, fuggiaschi afghani e amministratori delegati, si può davvero contare che la ragionevolezza e l’amore prevalgano? Beh, ci sono dei precedenti. Il Parlamento italiano, per esempio. Adesso sta seduto là, nei due rami, e non sa dove sbattere la testa, perché i suoi tre quarti non saranno più rieletti. Elezione del presidente della Repubblica, elezioni politiche, miliardi dell’esercito della salvezza, destino degli alberi, penzolano dal ramo che, a larga maggioranza (alla Camera quasi all’unanimità) si segarono sotto nel 2019, e nel 2020 il popolo sobriamente confermò. È bello infatti assistere alla caduta del ramo con tutti i filistei segatori. 

Non c’entra (quasi) niente, ma ho appena letto con raccapriccio della disgrazia successa a Uppsala a un concerto degli Abba: un uomo di 80 anni è precipitato dall’altezza di un settimo piano. Lui e uno spettatore su cui si è abbattuto sono morti.