Uno scatto della Conferenza nazionale delle donne del Pd, lo scorso giugno a Roma (LaPresse)

Piccola Posta

Care donne, per aprire le porte della politica servono le quote rosa

Adriano Sofri

Per rompere il meccanismo vizioso, portato avanti non solo dai maschi, ma dai più mediocri e dai più fessi fra loro, bisogna agire su un punto, e non può che essere quello statutario. A tutti i livelli e senza riserve

Giovanni De Mauro per Internazionale ha chiesto a 10 giornalisti stranieri in Italia di dare un consiglio a Enrico Letta, in poche parole. Più o meno esplicitamente gli dicono di puntare sulle donne. Del resto è quello che mostra di voler fare. C’è un’idea diffusa e distratta secondo cui puntare sulle donne è ovviamente necessario, poi però c’è la linea politica, i suoi programmi… Puntare davvero sulle donne (uso deliberatamente questa formula, che si riferisce agli uomini) è però in realtà una visione della politica, una prima e universale conversione ecologica. È anche la condizione per discutere schiettamente delle qualità personali nell’impegno politico.

 

Sabotare o semplicemente ingombrare il cammino delle donne è uno dei modi per perpetuare la prevalenza, non solo dei maschi, ma dei più mediocri e dei più fessi fra loro. Si chiama, da quando qualcuno spiegò così la fine dell’Impero romano, selezione alla rovescia. Il suo effetto complementare, e imbarazzante da affrontare, è anche quello di ostacolare l’avvento delle donne più capaci e determinate nei diversi ambiti dell’impegno civile, e specialmente nei due più incisivi e reciprocamente sempre più confusi, la politica professata e il giornalismo. Una giovane donna orgogliosa e consapevole della propria qualità starà mediamente alla larga da un ambiente caratterizzato da una inveterata soggezione agli uomini, in cui la cooptazione nelle terze e seconde file sia la regola, salva qualche sporadica eccezione “per far vedere”. Quando un leader politico, come ora Letta, rivendica due donne alla guida dei gruppi parlamentari (e ne otterrà una, ma questo è l’omaggio che la meschinità rende a se stessa), solleva inevitabilmente il tema della qualità – intelligenza, preparazione, temperamento e così via – delle candidate.

 

Tema automaticamente superato dal confronto coi colleghi uomini, che offrono un campionario di tali mediocrità da far chiudere subito la partita. Ma è ancora vero che la politica, pur dopo tanta metodica selezione dei peggiori, conserva qualche attrattiva per giovani maschi con l’ambizione di mettersi alla prova, e la scoraggia invece nelle donne. È differente un impegno come quello nella magistratura, in cui la promozione delle qualità, sia pur ostacolata grottescamente ai vertici nei modi ormai sciorinati pubblicamente, è solo questione di tempo, il tempo di pensionare e seppellire le generazioni maschili – che si erano tenute stretto il monopolio del mestiere fino al 1963! – vedrà prevalere donne, oltre che nel numero, come già avviene, nel riconoscimento del prestigio e nell’autorità. Alla politica non si accede per studio né per concorso, e l’unica compensazione, le cosiddette (e malamente) quote rosa, all’ordine del giorno da almeno trent’anni, direi, sono state bellamente irrise perché troppo evidentemente ragionevoli, col concorso attivissimo degli uomini e di moltissime donne.

 

Gli uomini, la gran maggioranza, hanno mostrato praticamente di interpretare la parità con una fuga in avanti, per così dire. Lungi dall’estendere al partito o al Parlamento (o alla regione, ahi, la regione!) il maschile precetto cavalleresco di cedere il posto alle signore, l’hanno cancellato anche quando gli capiti di prendere il tram. E molte donne hanno detestato una norma che sentivano paternalistica e fatta per misconoscere i loro talenti e le loro libertà, e la differenza preziosa che le separa dagli uomini. Una trentina di anni fa, avendo fatto tesoro della lezione, applaudivo una manifestazione nelle strade di Oslo in cui uomini issavano cartelli con su scritto: “Non siamo panda”, e mi auguravo di durare abbastanza per scendere in piazza con un cartello analogo in Italia. Va da sé che un dominio maschile di chissà quante migliaia di anni non poteva essere rovesciato in una generazione o due, ma i cambiamenti che la longeva generazione vivente ha conosciuto hanno rovesciato secoli e oltretutto lasciato interdetti i singoli, gli uomini arcaici che a grattare un po’ stanno sotto la pelle dei contemporanei, e con una tenace regolarità si sfogano, nelle loro punte avanzate, ammazzando la loro donna, o una donna di tutti, a nome di tutti.

 

Le donne ostili alle quote rosa (anche, a volte, alle correzioni lessicali, che quando non sono leziosamente zelanti sono rivelatrici e rieducatrici) sono non di rado molto in gamba e sdegnose di ciò che sappia di concessione. Tengono a ciò che si sono conquistate, insieme o solitariamente. Medaglia che, dico sommessamente, ha un’altra faccia, delicatamente affine all’atteggiamento di alcuni cittadini già immigrati che si sono fatti strada e nome nonostante tutto e osteggiano il riconoscimento “gratuito” di diritti a nuovi e anonimi arrivati. Nessun uomo si è “fatto da sé”: anche il più fiero e solitario si è valso della solidarietà obiettiva degli altri uomini, di un habitat maschile. Nella politica professata questo groviglio è più vistoso. La resistenza (la resilienza, direi, se non avessi fatto il fioretto) dei maschi, il rimpianto profondo e accanito per il cartello che vietava l’accesso alle estranee, contribuisce ad abbassare e mortificare la qualità e la libertà di pensieri e di scelte sia degli uomini che delle donne – le eccezioni ci sono e lo confermano. Per rompere il meccanismo vizioso bisogna agire su un punto, e non può che essere quello statutario, per tutti i gradini, e senza riserve. Aprire la porta, e non quella di servizio. Tanto, direte, prima o poi le donne la butteranno giù ridendo. Non è detto, vista la virulenza planetaria della controffensiva virile, da Istanbul a Varsavia, da Kabul al Colorado; alla lunga è probabile che le donne vincano, ma quanto alla lunga, è un’incognita assai costosa. 

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