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L'indipendenza del giudice ha per condizione la sua soggezione alla legge

Adriano Sofri

Il magistrato e la sua condizione non rappresentativa

Un mese fa avevo riferito qui come sapevo di un dibattito ascoltato sulla delenda Radio Radicale, a proposito della raccolta di scritti di Paolo Grossi intitolata “L’invenzione del diritto”. Vi si trattava fra l’altro dei giudici investiti di un’applicazione della legge che prende sempre più la veste dell’interpretazione, al punto di farne dei coautori della legge stessa. Ripetendo l’avvertenza di allora sulla mia categoria di orecchiante, riferisco oggi un intervento ascoltato domenica sulla decapitanda Radio Radicale, in cui il professor Paolo Ferrua, illustre studioso di diritto processuale penale, sollevava risolutamente il problema di un giudice, qui il giudice penale, reso tendenzialmente indipendente dalla legge stessa. Mi scuso dunque dei fraintendimenti possibili e anzi probabili del mio sunto: mi premunirò con qualche citazione (la relazione si può ascoltare sul sito).

 

L’indipendenza del giudice ha per condizione la sua soggezione alla legge. Il giudice “creativo” nell’interpretazione della legge e dunque attore o partecipe della legislazione contraddice la propria condizione non rappresentativa: priva cioè dell’investitura democratica propria del legislatore. (Qui, come in altri punti, ho una istintiva tentazione ad allarmarmi, sentendo un’assonanza con l’argomento principe dei demagoghi oggi in auge, sui giudici e in generale su chiunque in qualsiasi campo, scienziati dei vaccini e ragazzini che telefonano dal bus compresi, non sia stato “eletto”: ma mi controllo e distinguo). L’invadenza della magistratura, fenomeno noto e annoso, trova nella progressiva prevalenza del “diritto vivente” rispetto al “diritto vigente”, cioè della giurisprudenza, delle sentenze, rispetto alla legge, un nuovo e ingente svolgimento. (Poiché ogni esorbitanza trova le sue spiegazioni, se non le sue giustificazioni, è chiaro che l’insipienza progressiva del legislatore gioca una sua parte rilevante: le leggi assurde nella sostanza o nella confezione eccitano la correzione “interpretativa”). Ferrua esemplifica rispetto alla stessa Corte costituzionale, criticando in particolare il suo riconoscimento di una prevalenza del diritto dell’Unione europea su quello nazionale. Finché, dice, non ci sarà uno stato federale europeo con una sua Costituzione, nessuna giurisprudenza potrà avere ragione sulla nostra Costituzione. (Secondo istintivo allarme mio: sento arrivare la difesa della sovranità, che i tempi hanno reso quasi infrequentabile. Ma distinguo anche qui). Dice: la Corte è arrivata inoltre a dichiarare vincolante la motivazione delle sentenze della Corte europea, la Cedu (che non c’entra con la Ue). Ma vincolante nella sentenza è il dispositivo, al cui ordine bisogna ottemperare, non la motivazione, che è affatto discutibile. Ciò che vale anche per la Cassazione, le cui sentenze a Sezioni unite sono a loro volta vincolanti nel dispositivo e non nella motivazione (terzo allarme, e comunque dispiacere da parte mia: una sentenza delle Sezioni Unite diede torto ai giudici che mi avevano condannato e i giudici successivi trovarono i modi di aggirarla, compresa la sentenza suicida: ma ormai rinuncio ai miei allarmi per seguire l’argomentazione del professor Ferrua). Il quale si chiede “provocatoriamente”: “L’art. 111 della Costituzione parla del giusto processo regolato dalla legge. Ma esiste ancora la legalità nei termini così posti? Possiamo dire che il processo penale sia veramente regolato dalla legge?” Ferrua si dice incerto sull’eventualità che sia nato prima l’uovo dell’invadenza della magistratura o la gallina dei guazzabugli del legislatore (queste sono parole mie). Non che manchino le leggi, anzi: ce ne sono fin troppe. Ferrua parla di “decadenza del linguaggio legislativo, giunto a un punto folle di indecifrabilità”, e di autonomizzazione crescente del diritto vivente, la giurisprudenza creativa. La quale induce il legislatore stesso a dirsi: “se la vedranno i giudici”… Lo stesso presidente del Consiglio di stato, Patroni Griffi, è arrivato a ratificare lo svolgimento mostruoso per cui “la giurisprudenza ha fatto ingresso nella fabbrica delle leggi”. Ma il giudice che diventa legislatore perde la sua legittimazione. C’è un’arrendevolezza della dottrina “postmoderna” che mette in discussione la distinzione centrale fra creazione e interpretazione. “Ogni successione di parole può essere interpretata, ma esiste pur sempre il limite, quella che Kelsen chiamava la cornice dei significati: oltre quel limite il giudice sta creando la disposizione”.

 

(La Consulta, aggiunge Ferrua, ha cercato di rimediare a quel paio di sentenze esagerate attenuandone successivamente la portata, ma così rischia di relativizzare la cosa. Come tutte le grandi istituzioni, la Corte teme di perdere legittimità riconoscendo i propri errori: invece dovrebbe farlo francamente). Ecco, penso che anche noi illetterati abbiamo interesse a seguire queste lezioni. Finché dura Radio Radicale, almeno.

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