Matteo Salvini fa visita alla tendopoli di San Ferdinando (foto LaPresse)

Salvini è solo il 49 per cento del problema. Il 51 sono quelli che gli credono

Adriano Sofri

A proposito delle uscite del ministro su Libia e “pietismo”

Non bisogna dare niente per scontato, questa è la disgrazia supplementare. Quando cede un argine quello che ancora un momento prima era un tabù diventa accettabile e anzi ostentato. Succede da bambini con le parolacce. Nell’Italia razzista del fascismo era impensabile per i più e pericolosissimo per i pochi non dirsi razzista. Chi volesse obiettare avrebbe potuto cautamente premettere la clausola: “Non sono antirazzista, ma…”. Chissà se anche l’ultimo rimasuglio dell’argine che fa dire oggi ai più “Non sono razzista, ma…” crollerà, e il razzismo tornerà a essere rivendicato e vantato. Intanto, quello che viene dopo i puntini del “ma” dilaga. Si fa a gara per vantarsene. Il ministro dell’interno tedesco, quello Seehofer entrato improvvisamente nelle nostre frequentazioni quotidiane, ha vantato l’espulsione di 69 afghani residenti in Germania alla volta dell’Afghanistan in coincidenza col compimento dei suoi 69 anni: si è fatto un regalo, che allegria. Uno degli espulsi, 23 anni, vissuto in Germania da quando ne aveva 15, arrivato “in patria” si è impiccato, guastando maleducatamente la festa del ministro. (Macché, non bastava nemmeno a rovinare la festa, ha sempre quell’espressione). L’Afghanistan, per l’Europa – compresa la migliore, compresa la Norvegia – è “un paese sicuro”.

  

Il nostro Salvini – nostro, quello che è toccato a noi, che ci siamo inflitti – ha elencato le nazionalità dei 67 naufraghi tirati su dalla Vos Thalassa e sbarcati da una telefonata del Quirinale a Trapani (Trapani, dove Mattarella è di casa: dev’essergli pesato), eccole: 23 Pakistan, 4 Marocco, 4 Algeria, 1 Bangladesh, 1 Ciad, 2 Egitto, 1 Ghana, 10 Libia, 1 Nepal, 7 Palestina, 12 Sudan, 1 Yemen. Dove sono le guerre? – ha chiesto il callido Salvini. Naturalmente, si fa presto a dire dove non ci sono le guerre, in quei paesi. Vi chiederete se Salvini sia più ignorante o falso: le due cose, guardate. Nel 2015 recitò una gag formidabile. Avendo un amico nigeriano (oggi senatore della Lega), secondo la regola “non sono razzista, ho anche un amico negro”, “non sono omofobo, ho un amico frocio”, eccetera (unica eccezione, gli zingari: non hanno un amico zingaro), proclamò che avrebbe provveduto di persona a risolvere il problema della Nigeria. Ci sarebbe andato, avrebbe spiegato ai governanti che cosa dovevano fare, si sarebbe fatto dire da loro di che cosa avevano bisogno, e la cosa sarebbe stata sistemata. Non pensate che io stia scherzando o parodiando, è andata proprio così. Poi, dopo qualche slittamento nella data promessa della sua spedizione, finalmente comunicò (oltretutto smentito dal consolato nigeriano) che la Nigeria gli aveva negato il visto, e che evidentemente il suo viaggio “aveva fatto paura a qualcuno”. Siccome le buffonate si colorano volentieri precisò anche di aver fatto il vaccino per la febbre gialla – che è obbligatorio – e di essere perciò rimasto a letto per due giorni con la febbre: caso meritevole di attenzione dagli specialisti, e forse oggi recuperabile come anticipazione delle strategie no-vax.

  

Salvini è solo una metà del problema, anzi il 49 per cento, direi. L’altra metà, anzi il 51 per cento del problema, direi, sono quelli che gli credono, o fanno finta. Salvini va in Libia, non occorre vaccinarsi, del resto va e torna in una mattinata, abbastanza comunque per rassicurare il pubblico italiano: “Ho chiesto di visitare un centro di accoglienza per migranti in costruzione, un centro all’avanguardia che potrà ospitare mille persone. Questo per smontare la retorica in base alla quale in Libia si tortura e non si rispettano i diritti umani”. Il centro in costruzione incaricato di smontare la retorica è gestito dalle Nazioni Unite, dall’UNHCR, l’Alto Commissariato per i Rifugiati. Il pubblico italiano, che guarda molta televisione, dunque moltissimo Salvini, ha però avuto sufficienti occasioni per vedere gli orrendi spettacoli di torture, vessazioni, stupri e infamie che si consumano nei centri di detenzione libici gestiti dalle bande rivali, comprese quelle legate al governo riconosciuto dall’Onu.

 

Io, parte del pubblico italiano, ho visto giovedì sera nel programma “In onda”, su La7, due servizi di Francesca Mannocchi, in mare e in terra, e ho sentito la sua testimonianza in studio: bellissimi, impressionanti. Le donne ammucchiate come stracci coi loro piccoli, nati in quei centri (da quali padri, Mannocchi non ha avuto bisogno di dire): la retorica. La pacchia, la crociera. Salvini, e i suoi vili compagni di governo, sono il 49 per cento del problema: il 51, almeno, è il pubblico.

   

Quello che crede, quello che non crede ma fa finta di sì, perché gli piace. Si evocano le analogie fra i nostri giorni e gli anni ‘30 della Germania: più intimamente si dovrebbero ricordare gli anni Trenta dell’Italia. Quando per denigrare un oppositore o sbarazzarsi di un rivale lo si accusava di non essere razzista. L’epiteto più ingiurioso di quel tempo – anche questo è stato ricordato a ragione – era “pietista”. Denunciava inesorabilmente chi mostrasse qualche remora pietosa, qualche compassione, verso gli ebrei e – in subordine – i neri, gli zigani… Pietista, l’antenato del più vile ancora buonista. Io non sono buono, ma… E’ arduo essere davvero buoni, lasciatemi almeno essere buonista.

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