Sylvi Listhaug

Perché la paladina della Felix Norvegia xenofoba è stata costretta alle dimissioni

Adriano Sofri

Sylvi Listhaug inciampa su un post su Facebook

Martedì il governo della Norvegia, seconda nella classifica mondiale della “felicità”, ha traballato. Il suo personaggio di punta, la quarantenne signora Sylvi Listhaug, ministra dell’Immigrazione e dell’integrazione, è stata costretta alle dimissioni. Listhaug è bionda, carina, dunque fin qui il contrario del leghista Salvini. Ma come lui è l’alfiera del “Partito del progresso” – il nome è uno scherzo, è il partito della destra radicale, un tempo antitasse poi xenofoba – e da lì ha parassitato per due legislature, dal 2013, il Partito conservatore (che si chiama semplicemente “destra”), che guida la coalizione di governo con a capo un’altra donna, Erna Solberg: come Salvini sta facendo con Forza Italia.

 

Allo stesso modo, l’impudenza del linguaggio di Listhaug ne ha fatto la beniamina dei dibattiti televisivi e la castigatrice del buonismo (i norvegesi, pur peggiorando a vista d’occhio, non hanno ancora escogitato una parola così fessa) verso i migranti. Listhaug vanta le sue origini contadine e inalbera – letteralmente, con un vistoso crocifisso appeso spesso al collo – il proprio cristianesimo tradizionalista. Proprio la ribellione del partito cristiano-democratico, alleato di minoranza del governo ma, come le chiese norvegesi, aperto verso l’immigrazione, ha interrotto, per ora, la carriera arrembante di Listhaug. La quale si era messa in luce per le invettive contro i migranti in patria e fuori, da ultimo in una visita in Svezia, usata per farsi pubblicità elettorale dichiarando che lo Stato svedese aveva perso il controllo di decine di località in preda a bande straniere: la Svezia era il modello di ciò che la Norvegia doveva sventare.

 

Le elezioni norvegesi si sono tenute nello scorso settembre e l’alleanza di destra, benché il Partito laburista sia risultato il primo, ha conservato la maggioranza. Listhaug era solita deridere le preoccupazioni ecologiste, chiamare i cittadini a denunciare gli stranieri, accusare le chiese di complicità con l’islamizzazione del paese. Il record del suo ministero è impressionante: così nel numero di rimpatri, che comprende molti minori fra i 15 e i 18 anni, e molte pratiche concluse con l’accoglienza e riaperte; come nel numero delle richieste di asilo, crollato dalle 30 mila del 2015 alle 3.500 del 2017. Record che il grosso della politica italiana invidierebbe. Un paio di settimane fa Listhaug ha scritto su Facebook che i laburisti “tengono più ai diritti dei terroristi che a quelli dei cittadini norvegesi”.

 

E’ sembrato troppo: solo sette anni fa un norvegese “di ceppo” come Anders Breivik aveva lanciato il suo proclama razzista e fatto strage di 77 persone inermi, in gran maggioranza ragazze e ragazzi riuniti in una vacanza di studio dell’organizzazione giovanile del Partito del Lavoro. Dopo un’iniziale resistenza Listhaug aveva cancellato il suo post e aveva tentato maldestramente di scusarsi, ma l’opposizione e il Partito cristiano governativo hanno tenuto duro, sicché il governo Solberg ha rischiato di essere travolto. Le dimissioni di Listhaug tentano di rattoppare lo strappo –tardi, forse. In Norvegia non ci sono elezioni anticipate, dunque una crisi di governo porterebbe al tentativo di una maggioranza di centrosinistra guidata dai socialisti. Si può chiedersi che cosa sarebbe successo in Italia se un qualunque Salvini dell’alleanza di governo che si va agganciando con la manovra a spinta avesse scritto sul suo Facebook la frase in cui è inciampata la ministra norvegese: domanda oziosa.

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