Masud Barzani (foto LaPresse)

Calcoli sbagliati

Adriano Sofri

Per garantire la sopravvivenza di Abadi, gli Stati Uniti hanno sacrificato il loro caposaldo curdo

Un boss Hezbollah libanese ha esaltato l’operazione iracheno-iraniana di occupazione del Kurdistan come una disfatta degli Stati Uniti e di Israele. Difficile contraddirlo. Fra Israele e curdi c’è una simpatia antica e popolare, che può sorprendere chi immagini più naturale una solidarietà fra curdi e palestinesi, i due popoli proverbialmente senza stato. In tempi vicini il legame fra Israele e Kurdistan di Barzani è stato rafforzato dalla preoccupazione del governo di Netanyahu per l’espansione militare vistosa dell’Iran nella Siria di Assad, che l’ha fatto affacciare sul Mediterraneo di Tartus e saldare territorialmente un’alleanza sciita. Israele, che solitario aveva sostenuto apertamente il referendum curdo, assiste allarmato alla rivalsa di Baghdad e Teheran.

 

Gli Stati Uniti di Trump hanno segnato un uno-due da ubriachi: l’arringa del presidente contro l’accordo con l’Iran sul nucleare e l’operato terrorista dei Guardiani della Rivoluzione è stata seguita, a un giorno di distanza, dal via libera americano all’invasione del Kurdistan in cui la parte militare principale è stata coperta dalle milizie sciite di obbedienza iraniana Ashd al Shaabi guidate dal comandante dei pasdaran di al Quds, Qasem Soleimani, un famigerato fuorilegge per gli Stati Uniti. L’operazione iracheno-iraniana si è impadronita delle aree a maggioranza curda “contese” che da anni, per la guerra all’Isis, erano in mano curda, e spinge per andare oltre i confini di quelle aree, come nella battaglia di artiglieria di Prde, a sud di Erbil. Domenica il segretario di stato Tillerson da Riad ha proclamato che le milizie Ashd al Shaabi e i Guardiani della Rivoluzione devono “tornarsene a casa”, ora che l’Isis è largamente battuto, e la sicurezza deve appartenere solo alle forze irachene regolari. Il proclama di Tillerson fa pensare al proposito, se non di rimettere il dentifricio nel tubetto, almeno di far rientrare i buoi nella stalla appena dopo aver spalancato il recinto. Oltretutto, le milizie (in larga prevalenza) sciite che furono formate in Iraq per reagire alla disfatta subita dall’Isis, hanno cessato formalmente di essere “paramilitari” per passare al rango di regolari, e anche senza questo fatto compiuto ricorrerebbero facilmente all’espediente (già attuato a Kirkuk) di cambiare casacca. C’è una qualche logica, sia pure sgangherata, nell’atteggiamento americano? Se c’è, è questa: appoggiare il primo ministro iracheno Abadi allo scopo di staccarlo dalla pressione del suo rivale Maliki e in genere dall’influenza iraniana. Tillerson era in Arabia Saudita dove Abadi ha incontrato il re Salman e concordato un “consiglio di coooperazione” fra i due paesi sull’economia e la sicurezza. Abadi ha proseguito poi alla volta di Egitto e Giordania. L’Iraq ha fissato le sue elezioni politiche (che a questo punto coinvolgerebbero, nelle intenzioni, le province curde come le altre ordinarie) per il prossimo maggio.

 

Gli errori di Barzani

 

L’idea americana è che tutto stia fermo fino ad allora così da favorire la vittoria elettorale di Abadi e dei suoi eventuali alleati, ridimensionando la fazione più iraniana e riducendo i curdi ai confini precedenti il 2014, come se la guerra all’Isis non fosse avvenuta, e se la presa dell’Iran sul Kurdistan, a cominciare da Kirkuk, non si fosse già stretta. Per conservare la già squilibrata mezzadria sulla Baghdad di Abadi – il cui potere non è affatto solido, benché l’uomo attraversi una mezz’ora di euforia, e l’indipendenza da Teheran ancora meno solida – gli Stati Uniti hanno buttato via il loro caposaldo curdo. L’hanno fatto metodicamente, prima attaccando a oltranza il referendum curdo così spianando la strada alla ritorsione armata iracheno-iraniana (e presto turca), poi consentendo l’invasione congiunta dell’esercito iracheno, delle milizie sciite e dei pasdaran iraniani, e anzi, come esplicitamente ammettono, collaborando con essa. Masud Barzani ha sbagliato molte previsioni e si trova oggi con un paese smembrato e schiantato dalle fondamenta materiali e più ancora psicologiche, ma è difficile addebitargli di non aver saputo prevedere un simile comportamento americano. Su tutto ciò pesa in modo schiacciante la divisione fra le fazioni curde, intrisa di ipocrisie avidità e viltà, che ha insinuato negli animi della gente curda un sentimento travolgente di tradimento intestino e di abbandono del resto del mondo. Dovunque si canta il ritornello dei “traditori”. Uno dei massimi comandanti peshmerga del Puk, Jafar Mustafa, capo della Forza 70, ha fatto apertamente il nome di Bavl Talabani, il primogenito di Mam Jalal, chiamandolo traditore. Una canzone del celebre cantore curdo Kawes Agha / Kaws Axa (1889-1936), Kurd khaino, “Curdi traditori”, dedicata a chi tradì Sheik Mahmud, il ribelle fondatore del “regno curdo” dopo la Prima guerra, viene adattata sui video contemporanei e ridiffusa dappertutto. Fra i “38 su 50” comandanti peshmerga citati come fautori della ritirata da Kirkuk la maggioranza si dice pentita o ingannata. La “normalizzazione” curda che anche Tillerson rivendica, certo auspicando dialogo, rispetto della Costituzione eccetera, cioè auspicando, ha finora comportato molti morti civili (centinaia?) a Tuz Khurmathu e a Kirkuk, un numero indefinito di “dispersi” (soprattutto a Kirkuk, dove si svolge una caccia all’uomo), almeno 250 morti e il doppio di feriti fra i combattenti delle due parti, e circa 180 mila sfollati curdi, nel paese che dal 2014 a oggi aveva ospitato quasi due milioni di profughi e sfollati siriani e iracheni. E nessuna normalizzazione è all’orizzonte.

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