il giorno dopo l'attentato del 3 luglio 2016 a Baghdad (foto LaPresse)

Cosa accettiamo di vedere, dell'orrore di una strage?

Adriano Sofri
Per un giornalista, trovarsi nel luogo in cui avviene una strage è una specie di fortuna professionale: in realtà più spesso, poiché spesso si resta umani anche da giornalisti, è un dolore e un trauma che cambiano, almeno un po’, almeno per un po’, la vita.

Anche “Piazza pulita” sul La7, come già “Presa diretta” su Rai3, si è riaperta con un servizio del suo conduttore da Baghdad. In particolare a Formigli è successo di trovarsi a Baghdad nella notte fra il sabato 2 e la domenica 3 luglio. Era la notte della fine del Ramadan e la vigilia della grande festa di Eid al-Fitr. Nel quartiere sciita di Karada, nel centro della capitale, le famiglie affollavano le strade e un grande centro commerciale. Una enorme carica esplosiva collocata in un furgone frigorifero fece strage di circa trecento persone, e fra loro molti bambini. Altre centinaia furono i feriti. Formigli ci arrivò presto, vide la devastazione, ci camminò sopra, ascoltò i pianti e le maledizioni dei sopravvissuti. Era il più micidiale attentato dal tempo della guerra in Iraq, nella città, Baghdad, che ha il record delle vittime del terrorismo dei suicidi e delle autobombe, più dell’Afghanistan, della Nigeria e della Siria. Formigli ha messo al centro del suo servizio la domanda sul risalto scarso o nullo dato a una simile strage dalla nostra informazione. Domanda scandalosa e insieme scontata, e d’altra parte la documentazione scritta e filmata di quella terribile notte disponibile in rete è molto ricca.

 

Formigli ha anche insistito sull’avvertimento che le vittime del terrorismo jihadista sono soprattutto altri musulmani. E’ vero, ed è vero anche che il fanatismo sunnita detesta gli sciiti quanto e più degli infedeli o dei propri “apostati” (e viceversa, quanto al fanatismo sciita). Quell’attentato di Baghdad ebbe degli aspetti esemplari. Il primo ministro preso a sassate e ingiurie, ministri licenziati in fretta, moina. E la notizia, non so quanto accertata ma verosimilissima, che i detector con cui venivano controllate le vetture in entrata nel quartiere dalla polizia erano finti… Io ho un’altra domanda, non da oggi. Per un giornalista, trovarsi nel luogo in cui avviene una strage è una specie di fortuna professionale: in realtà più spesso, poiché spesso si resta umani anche da giornalisti, è un dolore e un trauma che cambiano, almeno un po’, almeno per un po’, la vita. Così dev’essere stato per Formigli, ed era il senso del suo servizio fuori tempo. Ma fra quel dolore e gli interrogativi che ne scaturiscono – che cosa accettiamo di vedere noi, che cosa potremmo e dovremmo fare noi – e il chiasso che nello studio televisivo segue il servizio c’è un contrasto grottesco. Il chiasso, dico, che cancella perfino l’eventualità che gli ospiti dicano delle cose ragionevoli e frustra dolore e intelligenza. Così, sia detto senza saccenteria, mi sembra alla fine risultarne un’estraneità del Formigli testimone di Baghdad al Formigli conduttore di “Piazza pulita”.

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