La casa di Jack

La recensione del film di Lars von Trier, con Matt Dillon, Uma Thurman, Riley Keough, Bruno Ganz

Mariarosa Mancuso

Il mestiere del serial killer come una delle belle arti. Dite a Lars von Trier che ci aveva già pensato Thomas De Quincey nel 1827, quando scriveva “L’assassinio come una delle belle arti”: aver letto qualche libro aiuta a non cadere nelle provocazioni. A leggere certe recensioni, sembra che la colpa di tutto l’abbia il Festival di Cannes, quando dichiarò il regista “persona non grata” per certe sue dichiarazioni antisemite – era in gara con “Melancholia”. L’interdetto è stato tolto e Lars von Trier l’ha rifatto, come lo scorpione con la rana. Un inizio di black comedy, e poi la tigna di chi si mette d’impegno per disgustare. Uma Thurman viene ammazzata a colpi di crick, le muffe del sauterne sono paragonate alla decomposizione dei cadaveri, da una tetta amputata viene ricavato un portamonete, a un anatroccolo viene spezzata una zampa. Lì gli spettatori hanno un moto di orrore, mentre hanno sopportato tutto quel che veniva prima e quel che verrà dopo, tra cui una graziosa casetta fatta di cadaveri, bambini uccisi con un fucile da caccia, strangolamenti e punteruoli nel cuore (il regista saprà perdonare se abbiamo dimenticato qualcosa). Per una spolverata colta e autobiografica (signora mia, lei non può immaginare i tormenti della creazione…”) arrivano i ragionamenti tra il mestiere dell’architetto e quello dell’ingegnere: l’ingegnere scrive la musica, l’architetto la suona. Arrivano l’Olocausto e la quercia di Goethe, distrutta assieme a cento ettari di bosco per costruire il campo di sterminio di Buchenwald (la pazienza dello spettatore si è esaurita molto prima, ma questo sarebbe il momenti di alzarsi e andarsene, per le sciocchezze che tocca sentire). Entrano Glenn Gould e William Blake, che con i serial killer stanno sempre bene, per via di Hannibal Lecter e delle variazioni Goldberg. Matt Dillon ha l’aria sempre più catatonica, mentre parla con la “voce misteriosa”. Appartiene alla buonanima di Bruno Ganz, che nel film si chiama Verge, e alla fine si svela come un Virgilio uscito dalla “Divina Commedia” illustrata da Gustave Doré. Matt Dillon si traveste con la palandrana rossa di Dante, e insieme sprofondano all’inferno, liberando finalmente lo spettatore.

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