FLORENCE

di Stephen Frears, con Meryl Streep, Hugh Grant, Simon Helberg, Rebecca Ferguson, Nina Arianda

Mariarosa Mancuso

Non sparate sul pianista. Applauditelo. Suona senza controfigura (neanche ha fatto un corso accelerato di simulazione sulla tastiera). Con i suoi occhioni fa da spassoso contrappunto alla vanità, alla cecità, alle stecche di Meryl Streep che rifà a puntino la vera Florence Foster Jenkins. Era una miliardaria newyorchese capace di massacrare come non sembrerebbe possibile l’aria della Regina della Notte, dal “Flauto magico” di Mozart (gorgheggi di dolore dopo la sparizione della figlia Pamina, gli increduli troveranno su internet la registrazione originale). Riconoscetelo, anche: l’attore si chiama Simon Helberg, più noto come ingegnere aerospaziale Howard Wolowitz in “The Big Bang Theory”. Accompagna al piano per la riccona – ha bisogno di soldi, lì ne girano tanti. Le note sbagliate lo feriscono, gli si legge in faccia ogni sfumatura di disprezzo (starebbe bene tra gli assistiti dell’impresario Danny Rose nel film di Woody Allen). Dice bugie con maggiore destrezza Hugh Grant, finalmente in un ruolo da uomo adulto: il secondo e amorevole marito di Florence (il primo come regalo di nozze le attaccò la sifilide, capitò anche a Karen Blixen, la scrittrice danese di “Il pranzo di Babette”). Non si sente di consigliare alla consorte, priva di talento ma appassionata di musica e generosa mecenate, di lasciar perdere i gorgheggi. Tra le le pareti domestiche i danni erano limitati (gli amici musicisti applaudivano volentieri, in cambio di champagne e caviale).

La situazione precipita quando Florence ormai settantenne (era il 1944) pretende di esibirsi alla Carnegie Hall con i suoi costumi preferiti: sigaraia spagnola, cherubino, valchiria (elmo con le alette, parruccone biondo, alabarda: tale e quale a Bugs Bunny mascherato da Brunilde nel cartoon di Chuck Jones). Secondo film in due anni sullo stesso personaggio, “Florence” è un classico biopic, ben girato e recitato. “Marguerite” di Xavier Giannoli spostava la vicenda in Francia – la cantante stonata era Catherine Frot, con maggiordomo nero molto devoto. Intrecciava la storia alle avanguardie artistiche del novecento. E la rendeva universale: siamo tutti un po’ Marguerite, accecati dalla vanità.

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