l'album
Libertines per sempre
All Quiet on the Eastern Esplanade è uno dei migliori album d’inizio 2024. Ecco iI ritorno della band di Barât e Doherty, all’insegna della perfetta decadenza british. Dureranno? I pronostici devono per forza essere pessimistici. Però...
Durante la loro prima vita, in scena tra il 1997 e il 2004, i Libertines sono stati una di quelle band che si amavano o si odiavano, talmente straripanti erano le personalità che conteneva e gli stereotipi che proponeva. In fondo stava appena sfumando la sbornia del britpop, s’era annacquata l’illusione che il Regno Unito di Tony Blair potesse diventare un environment invidiabile, erano ormai seppellite le asce di guerra tra i fighetti sostenitori dei Blur e gli stradaioli partigiani degli Oasis, mentre si avviavano al dunque le lotte intestine di ciascuna band, a cominciare da quella leggendaria e assai cafona tra i fratelli Liam e Noel Gallagher, e i rispettivi ego troppo espansi. Insomma i Libertines in un certo senso arrivarono in ritardo su una scena alla quale sembravano appartenere di diritto e a cui, peraltro, anche il suono dei loro primi due vendutissimi album s’ispirava senza mediazioni. E soprattutto, a legittimare il tutto, il gruppo conteneva, ancora una volta, due personalità eccezionali, capaci di meraviglie nei circoscritti casi in cui riuscivano a connettersi, salvo poi dar vita a un perenne scenario guerrigliero, notturno e drogatissimo, di cui si pascevano i tabloid d’oltremanica. D’altronde Pete Doherty era venuto alla ribalta come una figura mitica istantanea, bello, dannato, terribilmente sexy, poeta maledetto e instancabile peccatore, capace di spezzare il cuore niente meno che a Kate Moss, protagonista insieme a lui d’indimenticate scorribande nei nightclub londinesi, pronto ad autodistruggersi sull’altare dell’arte irriverente e in fondo romanticissima, ultima reincarnazione dei poeti ottocenteschi che morivano a vent’anni dopo aver dato velocemente fondo all’ispirazione. L’altra metà che contava nei Libertines era Carl Barât, una specie d’apolide figlio di hippie, impregnato d’intellettualismo e di una bizzarra fissazione per il tema della vecchia Inghilterra come tramontata arcadia del pensiero e dello stile, sempre sospinto da un’inesauribile brama creativa, spaziando tra musica, teatro e cinema.
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