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industria musicale

Nel grigio mondo della musica squattrinata la parola d'ordine è “resistenza”

Stefano Pistolini

Gli investitori hanno speso 12 miliardi di dollari in diritti musicali nel 2021, divorando i diritti di vecchia musica e cannibalizzando il passato a scapito del futuro. Ma prima o poi anche gli affaristi avranno bisogno dei creativi

Mamma mia che impressione, diceva Alberto Sordi! Se leggete i report pubblicati in queste settimane da testate autorevoli come Fast Company e perfino dal New York Times e siete appassionati di musica, la sensazione che proverete è di assoluto spaesamento. Lo scenario si è modificato in modo così radicale da assumere lineamenti indecifrabili per chi sia cresciuto con delle aspettative nei confronti del mondo musicale e perfino della sua industria, che ormai non corrispondono lontanamente alla realtà del presente. Il discorso, ovviamente, è di natura prettamente economica, ma va a colpire molti altri aspetti della questione, inclusi quelli della creatività e delle opportunità. Il germe delle rivoluzione – ma sarebbe più consono parlare di controrivoluzione – è rappresentato dai private equity, i fondi di investimento privato divenuti i principali attori della finanza che ruota attorno alla musica, all’indomani dei cambiamenti subentrati col nuovo millennio, nella fattispecie la morte della discografia fisica, ridotta a una faccenda per collezionisti, l’affermarsi del consumo musicale attraverso gli streaming a pagamento, la crescita esponenziale del mercato della musica dal vivo, col ripensamento dei concept di show e di tournée e problematiche connesse – a cominciare dai prezzi dei biglietti e dalle modalità di vendita dei tagliandi – fino al devastante avvento della pandemia, col prolungato blocco delle attività e soprattutto con la progressiva metamorfosi dell’identikit del consumatore di musica, secondo i dettami dell’èra digitale che giorno per giorno prendono il sopravvento su quella analogica. 

La sostanza del discorso e il succo delle inchieste è che da tempo la musica è divenuta un campo d’interesse per investimenti corposi e parecchio sicuri, ottimizzando la prevedibilità e la fedeltà dei consumi musicali del pubblico di tutto il mondo. Oggetto del commercio, nella fattispecie, sono i cataloghi editoriali di artisti famosi che, come raccontato più volte, passano di mano per cifre favolose (le centinaia di milioni di dollari sono la norma), andando costituire una fonte di reddito pressoché inesauribile. Si parla appunto di cataloghi, ovvero di materiali pubblicati da lungo tempo, che ribadiscono la natura primaria dell’industria musicale del presente, che altro non è che il riuso, ovvero il piacere infinito nel continuare a consumare i prodotti musicali verso i quali si prova affezione (chessò, la discografia dei Pink Floyd, o gli album di Bruce Springsteen) che possono essere riproposti all’infinito, riconfezionati in mille vesti diverse e possono essere traslati in altri settori merceologici, dai film biografici ai musical, dal merchandising ai locali a tema, dall’editoria fino, addirittura, all’intangibilità dei token digitali.

Una sola canzone può essere una cassaforte, racconta il Nyt facendo riferimento a “I Wanna Dance With Somebody (Who Loves Me)”, brano di Whitney Houston del 1987 che ha ispirato pellicole cinematografiche ed è stata rieditata in nuove versioni, o a “Super Freak”, hit del 1981 di Rick James al centro di uno sfruttamento intensivo che ha condotto all’elaborazione “Super Freaky Girl” che nel 2022 ha proiettato Nicky Minaj in testa alle classifiche, permettendo a Hipgnosis Songs Fund, fondo titolare dei diritti del pezzo, di monetizzare magnificamente sull’operazione. Ma l’effetto orribile del tutto qual è? Che non c’è nessun bisogno di musica nuova, o per meglio dire, che nessuno ha più voglia di investire quattrini rischiando su prodotti che potrebbero non incontrare il gusto del pubblico, restando lettera morta e non fruttifera, quando la scommessa sicura è continuare a lubrificare l’inesauribile successo di vecchi repertori, magari di artisti già trapassati, contenuti in album in circolazione da decenni. Gli investitori hanno speso 12 miliardi di dollari in diritti musicali nel 2021, divorando i diritti di vecchia musica e cannibalizzando il passato a scapito del futuro. E gli artisti celebri, i loro rappresentanti e i loro eredi non si sono fatti sfuggire l’occasione, sistemando così la loro pensione e quella di molte generazioni a venire, cedendo la proprietà e lo sfruttamento del loro momento magico.

A catena, il secondo effetto negativo è la suddivisione del mondo della musica in due settori contrapposti: chi ce l’ha fatta e chi no, spartizione che somiglia a quella più universale del piccolo e rigoglioso pianeta dei super-ricchi e il popoloso e desolato mondo di chi non ce l’ha fatta e fatica sempre di più a tirare avanti, prima di gettare la spugna. Insomma, ogni volta che andate su Spotify e ascoltate la vostra canzone preferita di Shakira, state versando una goccia nel mare di quattrini di un private equity, mentre le stesse piattaforme contribuiscono a rendere più profondo il baratro che divide chi ce l’ha fatta da chi guarda questo mercato da dietro un vetro infrangibile: Spotify sta ricontrattando le percentuali accordate alle megastar e nel contempo comunica che i musicisti che non ottengono almeno mille ascolti delle loro proposte non riceveranno compenso. “Perché faticare e spendere per creare qualcosa di nuovo, se si può far fruttare il proprio catalogo?”, dichiara in un’intervista Merck Mercuriadis, protagonista assoluto della conquista della musica da parte degli incursori di Wall Street. A questo punto nel grigio mondo della musica squattrinata la parola d’ordine è “resistenza”. Se adesso le cose vanno così, se a calpestare gli shining floor sono solo pochi fortunati, non è detto che le cose andranno così in eterno e che i ricercatori di buona musica si dovranno veder sottoporre ancora per molto l’ennesima versione cinematografica di “Bohemian Rhapsody”: qualche dato incoraggiante c’è. Ad esempio la crescita del numero di nuovi abbonati dei principali servizi streaming è in progressivo rallentamento, perché sta raggiungendo la massima capienza. Questo finirà per favorire la progressiva ridistribuzione dei consumi su una base più ampia, con la relativa inclusione di un maggior numero di artisti tra i beneficiari. Inoltre crescerà il fabbisogno di novità in grado di sollecitare l’attenzione del pubblico più giovane, tornando così ad alimentare, almeno in parte, le nuove produzioni. E probabilmente i musicisti finiranno per ottenere una retribuzione più decente per le loro produzioni da parte dei servizi streaming, che di tutto questo scenario beneficiano in modo vergognoso, con rischi ridotti al minimo. La morale è che bisogna tener duro: il tempo lavora per il nuovo e l’avidità degli affaristi presto avrà bisogno del contributo dei creativi. E ai nati, chessò, nel 2010, sarà troppo difficile spiegare chi erano i Beatles e perché ai nonni sembrava impossibile la vita senza i Queen. Il che riporta il problema a un vecchio principio assoluto: è sempre tutta colpa dei boomer.

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