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Il disco

La musica eterea di Banhart, che non si riesce mai a prendere troppo sul serio

Stefano Pistolini

Il nuovo album dell'artista statunitense s’intitola “Flyng Wig” ed è un lavoro interamente per elettronica e voce, concepito come risultato della sua ultima liason musicale con la producer e cantautrice sperimentale gallese Cate Le Bon

Quando si è fatto conoscere ai suoi esordi, Devendra Banhart aveva la peculiarità di far venire i nervi a molti ascoltatori. Non che la sua musica fosse male, tutt’altro. Ma si percepiva che c’era qualcosa di superficiale, d’improvvisato, di un po’ appiccicato in quel suo stile volutamente, esageratamente ispirato ai canoni – sonori, visuali, tematici – della ormai sepolta hippie culture. Era inizio millennio, una temperie culturale confusa e nervosa e che cosa andasse cercando e proponendo il venezuelano nato nel Texas, che cantava motivetti graziosi con una vocina soffice come una mammola, non era chiaro, per quanto fosse innegabile che la proposta era originale e a suo modo suggestiva (peraltro il suo avvento fu sincronico con quello di un altro talento innovativo e stravagante per la scena d’oltreoceano, come Sufjan Stevens). Fu comunque l’inizio di un piccolo culto, reso presto discontinuo dall’ancora insospettabile vezzo di Devendra: cambiar pelle musicale praticamente a ogni nuova uscita, senza offrire alcuna spiegazione.

Ed ecco che lo step successivo che gli viene attribuito da quelli bravi a etichettare la produzione di un cantante, propone l’affascinante sigla di “pre-war folk”, la particolare sintesi revivalista del suono country blues/hillbilly circolante nell’America rurale tra le due guerre, realizzato con strumentazioni interamente acustiche, chitarra, banjo, armonica e violino e, in fase di rivisitazione praticato da mammasantissima come Bob Dylan, Pete Seeger, Phil Ochs, Karen Dalton, arrivando fino alle sofisticate produzioni dei nostri tempi di Vashti Bunyan, Joanna Newsom, Jana Hunter o delle CocoRosie. Anche in questo caso, però, Banhart è transitato di qua salvo presto salpare per tutt’altri lidi musicali, lasciando sempre più perplessi i suoi sostenitori della prima ora. E’ seguita infatti una fase di devoto tropicalismo, nella quale si può ipotizzare che l’artista si sia riconnesso con le proprie radici culturali latine, finché anche questo passaggio si è dimostrato effimero e d’un tratto di Devendra si sono un po’ perse le tracce, quasi perfino la memoria. Eccolo invece riaffiorare a distanza di quattro anni, oggi 42enne, con un album che – verrebbe da dire “come prevedibile” – va completamente in una nuova direzione, ma lo fa, dal momento che talento e visione non sono mai mancati a Banhart, con risultati assai gradevoli.

L’album s’intitola “Flyng Wig”, ovvero “parrucca volante”, ed è un lavoro interamente per elettronica e voce che l’artista ha concepito come risultato della sua ultima liason musicale, quella con la producer e cantautrice sperimentale gallese Cate Le Bon, “l’unica persona con la quale potevo fare questo disco”, come ha specificato lui stesso. A due passi da Los Angeles, i due si sono chiusi in uno studio di registrazione nel Topanga Canyon che in passato era appartenuto a Neil Young, dove Banhart ha indossato le perle di sua nonna e la tunica blu da cui appare avvolto anche sulla copertina dell’album (una creazione di Issey Miyake) e, senza mai levarsela di dosso (Devendra non è nuovo a queste bizzarrie: agli inizi cantava con indosso i vestiti di sua madre, per ribadire la sua orgogliosa queerness), ha dato vita alla creazione. “Flying Wig” è un signor album, intenzionato a volgere sotto forma di canzone momenti di poesia meditativa avvolgendoli in sonorità che chiamano in causa i lavori di Brian Eno e ispirandosi agli scritti del mistico orientale Kobayashi Issa, sacerdote buddista maestro di haiku.

Distendendosi su vellutati e malinconici tappeti di sintetizzatori governati da Cate Le Bon,  la voce di Banhart fluttua e modula con soavità e classe, pronunciando strane riflessioni sui sentimenti e sulla vita, come in “Charger”, che racchiude pensieri sull’amore in forma di delicata metafora che paragona la sua perdita allo smarrimento dell’indispensabile congegno per il cellulare (“sembra che io abbia perso il mio caricatore”, mormora Devendra) per lasciare spazio nel finale a un coro celestiale. Con questo andamento etereo, sonnolento e ipnotico “Flying Wig” si espande nell’ambiente dove risuona, e conquista. Del resto è proprio questa la prerogativa di Banhart, uomo di sussurri, che non si riesce mai a prendere troppo sul serio, forse perché per primo è lui a non farlo. Ma che trasforma in musica una percezione di tenerezza verso le persone e le cose, della quale, tanto più di questi tempi, è piacevole circondarsi.

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