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A teatro

Le mazzette di don Magnifico, la maschera dell'italiano scaltro e cinico

Damiano Michieletto

La “Cenerentola” rossiniana, un’opera che dal 1817 gira per il mondo e scritta per un debutto molto preciso al Teatro Valle di Roma

La lotta alla corruzione è un punto fisso dell’agenda politica di ogni governo del nostro paese perché evadere le tasse, offrire una bustarella o semplicemente saltare la fila, sembrano azioni connaturate nel cittadino italiano, tanto che questa lotta è fiaccata da una mentalità che non premia il merito ma la furbizia. A dircelo non sono solo i dati di bilancio o le cronache giornalistiche che testimoniano gli inverecondi scandali giudiziari, ma è un modesto personaggio dal nome immodesto: Don Magnifico. Per scoprire di chi si tratta dobbiamo partire da Cenerentola, il personaggio della fiaba di Charles Perrault, con la perfida matrigna e la scarpetta di cristallo. Di questa fiaba esiste nell’opera lirica la versione di Gioacchino Rossini, dove il librettista romano Jacopo Ferretti sostituisce la matrigna con un patrigno e dove, inoltre, al posto delle scintillanti scarpette, Cenerentola indossa ai polsi due braccialetti; ne darà uno al Principe così lui potrà ritrovarla e decidere liberamente se riconoscerla oppure no, vista la sua condizione di povertà. Il fatto di ricorrere al braccialetto è giustificato da Ferretti, come “una necessità nelle scene del Teatro Valle, e un rispetto alla delicatezza del gusto romano”. Insomma, non è decoroso che nella città papale a inizio Ottocento si mostri una scena in cui, per calzare delle scarpe, una fanciulla sveli le gambe al pubblico.

Dobbiamo infatti tener presente che quest’opera fu scritta per un debutto molto preciso, al Teatro Valle di Roma e ricordarci che nel passato i teatri erano ditte private che investivano nella  produzione attraverso un impresario che se ne assumeva personalmente il rischio; assolutamente nulla a che vedere con il modo in cui funzionano i teatri ai giorni nostri. A Roma, ad esempio, l’odierno Teatro Argentina apparteneva a una famiglia aristocratica e, allo stesso modo, il Teatro Valle era di proprietà della nobile famiglia Capranica, che già tempo prima aveva costruito un altro teatro nell’omonima piazza a due passi dal Pantheon. Perciò, se un’opera debuttava a Roma, doveva essere espressamente pensata per il pubblico di quella città, non per un pubblico anonimo.  Non c’erano algoritmi a cui rivolgersi, ma una consapevolezza ben precisa dei gusti e delle aspettative che l’opera doveva soddisfare e, se non li soddisfaceva, l’impresario era costretto a chiudere baracca e burattini.

Ferretti, per star dietro alle esigenze dell’impresario che aveva messo su la produzione, scrive a ritmo forsennato e versifica una storia in cui il Principe arriva da Salerno mentre il patrigno di Cenerentola vanta una parentela nel viterbese e si fa chiamare col nome che abbiamo conosciuto all’inizio: Don Magnifico. Don Magnifico è la maschera favolosa dell’italiano mediocre che millanta quello che non è, scaltro e cinico quanto basta per tirare a campare vantandosi di essere addirittura un barone. Sì, barone di Montefiascone. Un burino insomma! Uno spiantato che le prova tutte affinché le figlie riescano a conquistare il Principe, per ripianare tutti i debiti in cui si è impantanato. Ora, c’è un momento nell’opera in cui Don Magnifico immagina cosa gli succederà se una delle due figlie (le sorellastre) andasse in sposa al Principe. Che cosa gli viene in mente?

Proviamo anzi così: se foste voi l’autore del testo teatrale e doveste raccontare i pensieri di Don Magnifico quando si sente potente per il fatto che una delle figlie è salita al trono, che cosa scrivereste? Che cosa immaginate potrebbe succedere a quest’uomo? Forse avrà una nuova ricchezza a disposizione, vestiti, cuochi, valletti, l’autista e la carrozza di servizio ad uso personale? Forse raggiungerà l’agognata spensieratezza di non dover più sgobbare come gli altri poveracci che fanno i conti con i rincari delle bollette e la rata del mutuo? Un palazzo con rooftop che domina la capitale? Un buen retiro a Sabaudia? Uno yacht ormeggiato a Capri? Nulla di tutto ciò. Nell’opera di Rossini quest’uomo ha solo un’unica e precisissima parola che associa alla sua idea di potere ed è una parola che un po’ lo preoccupa, perché sa che gli procurerà anche delle seccature: la corruzione. Lo sa così bene che ci racconta per filo e per segno ciò che gli succederà. Ecco quello che ci dice: “Già mi par che questo e quello conficcandomi a un cantone e cavandosi il cappello…”: inizia così l’avvicinamento ossequioso del corruttore mafiosetto, lo vediamo prendere sottobraccio Don Magnifico e appartarlo parlandogli a bassa voce.  Cosa vuole?

“Alla figlia sua regale porterebbe un memoriale?”. Sta chiedendo un favore, un beneficio, un aiutino: ora che tua figlia ha sposato il Principe tu puoi fare in modo che si ricordi di me; e rapidamente, con una scusa qualunque, fa scendere nella tasca di Don Magnifico una “doppia ben coniata”. Money makes the world go round… Sono pochi versi, un abbaglio, un lampo, ma Don Magnifico non fa in tempo a togliersi dai piedi quel tizio ed ecco avvicinarsi una donna tutta improfumata e dal vistoso make-up (“tutta odori e tutta unguenti”) che si inchina “fra sospiri e complimenti” sussurrandogli all’orecchio: “Baroncino, si ricordi quell’affare…”. A parte il notevole vezzeggiativo, di che affare si sta parlando!? Non lo sappiamo, ma mentre la donna gli spiffera quella frase ambigua, magari accompagnata da una strizzata d’occhio o una sbuffata di sigaretta, eccola accostare la mano alla tasca di Don Magnifico e in modo accorto farci sdrucciolare dentro “una piastra”. That clinking clanking sound… 

Il potere di Don Magnifico determina così una corte di uomini e donne che cercano una cosa sola: la raccomandazione. Questo ci racconta Don Magnifico, nella Roma del 1817: avrà continue richieste di gente disposta a trovare il modo di pagarlo per farsi raccomandare. Bustarella, mazzetta, sbruffo, pizzo o tangente che sia: il lessico non ci difetta. L’aria continua infatti con una galoppata musicale a cui corrisponde una folla di miseri soggetti che si accalcano, come in un fantasmagorico girone dantesco, attorno al miraggio del potere: “Questo cerca protezione, quello ha torto e vuol ragione, chi vorrebbe un impieguccio, chi l’appalto delle spille, chi la pesca delle anguille”, fino a chiudere il martellante elenco con l’esponente massimo di questa sgomitante accozzaglia: il papavero che pretende di salire in cattedra quando in realtà è un ignorante.

E Don Magnifico come reagisce a tutto ciò? Perché, evidentemente, affinché avvenga l’atto di corruzione bisogna essere in due, ci vuole il corruttore e il corrotto. Forse il nostro Don Magnifico farà una denuncia? Si rivolgerà alla guardia di finanza? Chiamerà la polizia che intercetterà il corrotto finalmente smascherato e condannato a finire i suoi giorni in galera? Ahimè, nulla di tutto ciò. Con la sintesi tipica del melodramma, Don Magnifico esprime quasi un epitaffio: “Senza argento parla ai sordi”. Lui sarà sordo se non ci sarà argento. Un motto fulminante, una sintesi perfetta che definisce chi può avere voce e chi no, chi può aggiudicarsi la chiave per aprire rapidamente le porte di palazzo e chi invece è destinato a stare eternamente in fila, chi può far valere delle istanze e chi invece è destinato a rimanere inascoltato. Il pubblico di Roma, evidentemente, rideva di Don Magnifico perché quella maschera fungeva da specchio. Bella o brutta che sia, la nostra identità è anche quel Don Magnifico che vuole far fruttare il fatto di essere imparentato col potere. Andate su YouTube, scrivete “Sia qualunque delle figlie” e ascoltate quest’aria, si intitola così.

Eccoci così ritratti dal romanissimo poeta Jacopo Ferretti (amico del Belli), in quello che è divenuto uno stereotipo dell’italiano: un popolo che fatica a credere nella meritocrazia ma procede piuttosto per la scorciatoia illegale. Così Don Magnifico, faccendiere baldanzoso di questa novella Tangentopoli accompagnato dalla musica danzante di Rossini, sarà come dice lui stesso, “zeppo e contornato di memorie e petizioni, di galline, di storioni, di bottiglie, di broccati, di candele e marinati, di ciambelle e pasticcetti, di canditi e di confetti, di piastroni, di dobloni, di vaniglia e di caffè”. Ma la bolgia infernale non accenna a diminuire, le richieste si accumulano così pressanti che Don Magnifico è costretto a chiudere l’uscio a catenaccio e sfrattare con forza quegli importuni e chiassosi scocciatori. Riuscire a farsi corrompere senza farlo notare è una faticaccia, ma passare inosservati resta la condizione necessaria perché l’affare funzioni.

Quando si parla della fama e del successo dei migliori artisti pop, si fa sempre riferimento a esperienze musicali che hanno una vita breve: i Beatles, per esempio, sono stati in tournée solo per una decina d’anni. Tuttavia oggi la tournée di Rossini (anche lui, a suo modo, un artista pop), continua ancora.   Nella scorsa stagione, tra settembre 2022 e settembre 2023, “La Cenerentola” di Rossini, è stata rappresentata in 16 nazioni diverse, dalla Svizzera alla Polonia, dalla Russia alla Corea del Sud, dall’Australia agli Stati Uniti. Una vera tournée planetaria. A me tocca in questo mese la fortuna di poterla rappresentare a Parigi, al Théâtre des Champs-Élysées, una sala tres chic, immersa in un ricco quartiere pieno di negozi sfavillanti accanto al Crazy Horse. Lavorare al Théâtre des Champs-Élysées ti offre la sensazione di poter prendere tutto con un po’ di aristocratica nonchalance. Così, se ti capita una giornata deludente in sala prove, puoi consolarti con un bicchiere di Chablis guardando la torre Eiffel che spunta sull’orizzonte davanti al teatro e sentirti un po’ come Don Magnifico. 

Oggi in Italia non ci sono più imprenditori privati che (come nel passato) costruiscono teatri, perché quel mondo è terminato. I Capranica dei giorni d’oggi investono su altri affari immobiliari e finanziari. Ma ci sono ancora cittadini che desiderano godere della bellezza dello spettacolo dal vivo, che tiene viva una città e crea uno spazio di condivisione fisica in una società digitale. Il Teatro Valle ha cessato la sua attività nel 2011. In quell’anno, perorando la causa di chi cercava di mantenere aperto il teatro, Lorenzo Jovanotti disse: “Io mi occupo di cultura mainstream, canto musica pop, non ho bisogno di soldi pubblici per stare sul mercato. Ma ci sono forme di cultura, di cui anch’io mi alimento, che, senza l’intervento pubblico, rischiano di scomparire”. Il Teatro Valle a Roma, dove debuttò “La Cenerentola”, non è solo un antico palcoscenico della capitale d’Italia, ma un vero pezzo della nostra identità. Però non è con lo sguardo rivolto all’indietro che si guida un’automobile. L’orizzonte sarà sereno se chi si occupa di dare vita a questi palcoscenici non lo farà solo in nome di quanto erano importanti una volta, ma del significato e delle emozioni che possono riservare oggi. Perché, laddove c’è significato ed emozione, il pubblico accorre.  Sarebbe bello perciò vedere il Teatro Valle, dove debuttò quella Cenerentola, che ancora sta continuando la sua tournée mondiale, rimesso in piena forma. Non tres chic ma, anzi, gajardo e tosto!

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