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Miracolo a Caracalla, si canta e si suona sotto il cielo

Damiano Michieletto

Le antiche rovine restituiscono al teatro la sua essenza di festa. Così il parco archeologico della capitale diventa il luogo ideale per celebrare il fascino di “Rigoletto”

In un placido tramonto di agosto, nella luce che si allarga sull’orizzonte romano prendiamo posto alle Terme di Caracalla, su uno dei 4.500 seggiolini di plastica, posizionati come ogni estate a formare il palcoscenico più amato dal pubblico di Roma. 

Ho scritto “come ogni estate”, ma ovviamente è un modo di dire sbrigativo per indicare una cosa che si fa da tanto tempo a Roma. Da quanto precisamente? Quando e a chi venne l’idea di creare una platea estiva sfruttando la naturale potenza scenografica e l’impatto emotivo di quelle maestose rovine che un tempo furono luogo pubblico di relax e benessere? Tutto iniziò nel 1937, con due titoli classici, “Lucia di Lammermoor” e ovviamente “Tosca”, la più romana di tutte le trame operistiche. La platea allora non era di 4.500 posti, che oggi sono comunque un bel numero, ma arrivò a contarne addirittura 20 mila! Sembra impossibile immaginare oggi 20 mila posti per un’opera lirica, eppure nella Roma degli anni 30, sotto l’aristocratico podestà Piero Colonna era così. Oggi i grandi numeri live esistono ancora, ma sono riservati alle star del pop, non solo internazionale ma anche quello di casa. Il mese scorso, Blanco, per fare un esempio, che ha solo 20 anni, ha avuto 40 mila spettatori paganti per il suo concerto all’Olimpico di Roma. Resta il fatto che la tradizione di un evento estivo come Caracalla sopravvive nel tempo ed è un appuntamento che accoglie e accomuna spettatori e gusti diversi mantenendo la sua identità di spazio popolare. All’inizio il palcoscenico era posizionato all’interno delle rovine, che ne costituivano il perimetro e il boccascena. Lo si può vedere anche negli ultimi minuti del film “La luna” di Bernardo Bertolucci in cui alla fine degli anni 70 un giovane Carlo Verdone interpreta il ruolo di un regista alla prese con l’allestimento di un’opera a Caracalla. Oggi invece le due grandi torri fanno da sfondo al palcoscenico, in una dimensione spettacolare che riassume quello che all’origine mi ha fatto innamorare del teatro, vale a dire il fatto di partecipare a una festa. Per me questo è il teatro nella sua essenza: una festa. La festa come celebrazione della gioia di essere al mondo. In sostanza si fa festa per dire che è bello esserci. Perciò a una festa si balla, si canta, si suona. E, personalmente, adoro gli spettacoli all’aperto. E’ noto che Toscanini, rispondendo a un giornalista che gli aveva chiesto cosa ne pensasse dell’opera fatta all’aperto, avesse detto: “All’aperto si gioca a bocce”. Per di più a Caracalla ci sono pure le cicale che cantano mentre inizia la musica… immagino che per Toscanini sarebbe inaccettabile! Ma quel fragoroso silenzio che si percepisce quando il pubblico si zittisce e le cicale continuano imperterrite a cantare è un ossimoro che per me ha il senso di un emozionante “qui e ora”. Del resto nella Grecia del V secolo, vale a dire il massimo periodo dello splendore teatrale nell’intera civiltà umana, si mettevano in scena gli spettacoli all’aperto: si cantava e si suonava sotto il cielo, alla luce del sole e immagino che anche tra i pini marittimi dell’Egeo ci saranno state le cicale.

Per cui lavorare a Caracalla mi mette di buon umore. Quando si fa tardi spuntano i panini con la porchetta, durante le prove l’aria è vivace, un’allegria contagiosa ti prende l’animo e ti regala il sorriso anche quando ci sono problemi tecnici, ritardi, pigrizie e, siccome ogni teatro lirico è lo specchio di una città, quando lavori a Caracalla capisci Roma…

Un giorno, qualche anno fa, alla Royal Opera House di Londra, il più grande teatro lirico inglese, volevo che la statua di una Madonna, fissata sopra a una portantina, fosse sostituita con una ragazza vera e propria, vestita e truccata tale e quale alla statua e perfettamente immobile. Volevo che il pubblico credesse di trovarsi davanti a una statua per poi stupirlo con l’effetto di una “apparizione” nel momento in cui la ragazza avrebbe lentamente alzato il braccio e mosso il capo. Forse un effettaccio da quattro soldi? Chissà! Certo, eravamo un bel po’ avanti con le prove, mancavano pochi giorni al debutto e quindi la mia richiesta suonava come un’idea strampalata dell’ultimo momento (già questo bastava a farmi passare per il solito italiano disorganizzato…). Quella che comunque a me sembrava una cosa semplicissima, un cambiamento da nulla, comportò invece giorni di discussioni: non che ci fossero problemi di sicurezza o altro, ma la portantina non era stata disegnata e costruita per quello scopo e quindi non si poteva cambiare. Alla fine arrivammo a un compromesso: il teatro costruì una seconda portantina, un pò più modesta rispetto alla prima, per fare in modo che la ragazza potesse essere trasportata e così ottenere l’effetto che avevo in mente. Non mi potevo lamentare di nulla, tutto si era risolto ottimamente. Ma a costo di lunghe discussions… A Caracalla, invece, un paio di macchinisti avrebbero preso sega e martello e in cinque minuti avrebbero risolto la cosa. 

Ma sempre a Caracalla, l’anno scorso, siccome nessuno aveva verificato che il punto dove si doveva posizionare un elevatore sotto al palcoscenico era lo stesso punto in cui passava una trave d’acciaio che reggeva il palco stesso, l’elevatore non si poteva azionare. Poi, “e che ce vò”… il giorno prima del debutto si trovò rapidamente una soluzione. Ecco, il teatro è lo specchio di una città: noi siamo bravi a risolvere le cose ma allo stesso tempo siamo bravissimi a creare emergenze perché non prevediamo le cose. Noi non prevediamo, perciò risolviamo: bravi a risolvere, perché non bravi a prevedere. Ci sfugge la logistica della prevenzione forse perché a nostra volta siamo una penisola orgogliosa e sfuggente. O, per farci un complimento, “flessibile”, giacché mirabile e insuperabile è la nostra flessibilità grammaticale. Difficili da mettere d’accordo e difficili da definire. “Italia sicut anguilla”: sia che tu la voglia prendere per la testa sia per la coda, sempre ti sfugge. 

Così come sfuggenti, flessibili e indefinibili sono gli eroi dei classici, di cui “Rigoletto” è un chiaro esempio. Rigoletto: chi è quest’uomo di cui non conosciamo nemmeno il vero nome? Un padre, innanzitutto. Un padre che cerca di proteggere e salvare la figlia, Gilda, da un mondo crudele e pericoloso di cui lui stesso fa parte. Si potrebbe in realtà anche mettere in dubbio che sia il vero padre, visto che nessuno conosce da dove arrivi Gilda, né chi sia la madre. Chi è infatti la donna che ha amato Rigoletto per compassione, nonostante fosse “solo, difforme e povero”? L’identità di questi personaggi è avvolta nel mistero. Dimmi chi è mia madre! La figlia implora il padre, ma lui evita la domanda. Perché? Cosa c’è sotto…? Di recente ho visto il bellissimo film “Ada” diretto da Kira Kovalenko. In quel film, che nulla ha a che fare col melodramma o con Hugo, ho ritrovato l’essenza simbolica e ancestrale del rapporto padre-figlia raccontato in “Rigoletto”, dove anche qui è indicativa l’assenza di una madre. 

A Mizur, un piccolo paese dell’Ossezia del nord, incastonato tra strade polverose e abitazioni fatiscenti, una ragazza cerca di liberarsi da un padre che la tiene prigioniera in casa e regola la sua vita in modo tirannico. Ma sempre, ne è convinto, per il suo bene. Nel momento in cui la figlia sta per dire addio al padre, che è ammalato, lui la abbraccia e per un crampo che gli impedisce di controllare le articolazioni, finisce per avvinghiare nervosamente il corpo della ragazza che non riesce a staccarsi da lui. E’ una potentissima immagine simbolica del loro rapporto malato. Il padre e la figlia, bloccati assieme, vengono trasportati in uno squallido ospedale dove un’infermiera riesce, con un’iniezione, a calmare lo spasmo nervoso del padre, che dopo alcune ore lascia il corpo della figlia. Un ultimo dettaglio ci rivela la natura complessa e insana di quel rapporto: nel momento in cui la figlia sente le braccia del padre che si afflosciano, proprio nel momento in cui la gabbia si apre e l’orizzonte della libertà finalmente si preannuncia, vediamo che lo sguardo della ragazza per un attimo si smarrisce e le sue mani afferrano di nuovo quelle del padre per tenerle ancora un attimo avvolte a sé. La vittima che teme di perdere la sua identità, mancandole il carnefice: un estremo e irrazionale riconoscimento che la violenza del padre nasce da un disperata solitudine e da una profonda inadeguatezza nell’affrontare il suo ruolo. 

Tutto questo è anche nella natura del misterioso Rigoletto, un uomo solo e senza amici, per il quale la figlia rappresenta, come dice lui stesso, il suo universo intero. Un personaggio shakespeariano, tormentato, incattivito dalla vita, deforme nell’aspetto, deriso, disprezzato e mosso da un infinito bisogno di amore. Un doloroso desiderio di riscatto (sociale, morale, famigliare) lo porta al vano tentativo di abbandonare quella corte degenerata, per sognare un altrove che forse lui stesso non sa quali caratteristiche possa avere. L’errore dei padri è di imporre ai figli i propri sogni, che perciò diventano incubi. Verdi prende la sua trama da un testo teatrale francese di Victor Hugo dal titolo emblematico: “Il re si diverte”. E’ un testo che vide solamente una rappresentazione alla Comédie-Française di Parigi per poi essere immediatamente proibito e bandito dalle scene. Perché? Per vari motivi, tra i quali il fatto che il re di Francia veniva presentato come un uomo immorale e dispotico. Come se oggi si proponesse a Rai 1 di trasmettere una serie tv che facesse a pezzi l’immagine del governo: semplicemente non troverebbe mai posto nel palinsesto. Alla Comédie-Française, il teatro reale, si dovettero aspettare 50 anni prima che “Il re si diverte” potesse di nuovo essere rappresentato.

La censura costringe Verdi a cambiare tempo e luogo della vicenda e così il re diventa un duca qualsiasi, senza però perdere nessuna delle sue caratteristiche. Con la potenza sintetica tipica del melodramma, il personaggio del Duca si può riassumere in un solo verso: quando Gilda gli chiede il suo nome (e ricordiamoci, per una ragazza a cui il nome del padre e il nome della madre sono totalmente ignoti, l’ossessione di conoscere il nome del suo innamorato diventa patologica), lui le risponde così: “Se angelo o demone che importa a te?”. Ecco, si tratta dell’ennesima reincarnazione del seduttore irresistibile e del cinico distruttore. Dopo averle risposto con questa domanda sibillina, il duca le dice una bugia e si inventa lì per lì un ridicolo nome a caso: la povera ragazza ancora una volta non ha trovato nessuno che la consideri degna della verità.

Il fatto stesso che Verdi abbia preso la storia di Hugo per ambientarla poi in un altro tempo e in un altro luogo ci indica che cambiare l’ambientazione di un’opera non significa di per sé tradirne lo spirito e il valore drammatico. Che in questo caso è determinato dalla violenza di chi è o si sente un re intoccabile: il duca si diverte, eccome, ma gli altri subiscono il suo dispotismo, a partire proprio da Rigoletto, disprezzato e umiliato come l’ultimo e il più ridicolo dei buffoni. Il duca invece non si sporca mai le mani, si limita a dare ordini e comandare: un narcisista esclusivamente concentrato sul suo edonismo sfrenato. E così, accanto a Blanco o ai Pinguini Tattici Nucleari, che si sono esibiti con grande successo in questa estate romana raccogliendo fan e staccando numerosi biglietti, nelle sere di Caracalla abbiamo celebrato il mistero e il fascino di un classico, suonato e cantato in modo diverso, antico, lento. Solenne, proprio nel senso etimologico, di qualcosa che si ripete tutti gli anni. Dal 1937 in qua.

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