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Il Foglio del weekend

"La traviata" violentata dal politicamente corretto

Damiano Michieletto

La celebre opera con la quale Verdi lanciò una sfida all’ipocrisia del suo tempo e fu censurato. Un insegnamento sul valore del teatro “scorretto”

"La traviata” di Giuseppe Verdi è forse l’opera lirica italiana più famosa al mondo, un vero emblema del nostro patrimonio culturale.  Il coro del brindisi “Libiamo nei lieti calici”, che apre la prima parte dell’opera è ad esempio un brano popolarissimo, eseguito spesso anche in occasioni mondane e celebrative, riconosciuto come un inno festoso alla spensieratezza e alla convivialità. Ma quando l’opera venne presentata al pubblico nel 1853, quel coro non comunicò affatto un senso di effervescenza gioiosa, quanto invece un inquietante messaggio che fu ritenuto politicamente scorretto e scandaloso. E l’opera fu infatti censurata. Ma come, Giuseppe Verdi un uomo scandaloso? Assolutamente sì. Il testo della sua opera fu costretto a subire pesanti modifiche da parte della polizia che si occupava della censura e operava in modo chirurgico, epurando i particolari ritenuti scomodi, inopportuni, immorali e, appunto, politicamente scorretti. Riflettere su questa piccola vicenda può aiutarci a capire il senso e il valore del teatro in rapporto alla società di oggi.

“La traviata” è la storia di Violetta Valéry, una prostituta che si innamora di un giovane uomo, Alfredo, e va a convivere con lui. Sembra che le cose possano funzionare per loro, ma non per la società che condanna quella convivenza, fuori dal matrimonio, tra un giovane ragazzo di buona famiglia e una prostituta che poi si scopre essere pure ammalata e moribonda: un ritratto quanto mai lontano rispetto all’immagine che la donna doveva pubblicamente proporre. Il padre di Alfredo accorre per impedire quell’unione sconveniente e riesce a convincere Violetta ad abbandonare suo figlio per non causare ulteriori problemi a lui e alla sua famiglia. E così farà Violetta finendo poi sola e abbandonata da tutti, a consumare in povertà i suoi ultimi giorni. La polizia della censura, quindi, corresse il libretto dell’opera a partire dal titolo stesso: non più “La traviata” (vale a dire l’immonda, la peccatrice, la pervertita, la depravata) ma semplicemente e candidamente “Violetta”, delicata anche nel suo vezzeggiativo. Questa nuova Violetta non è più una prostituta ma solamente una povera ragazza senza soldi: è il motivo economico che renderà quindi inadatto il matrimonio con il giovane Alfredo, non la sua professione. Questo cambiamento stravolge anche il fatto che, nella vicenda teatrale, “traviata” è invece una donna ricca e benestante, attorniata di nobili e facoltosi clienti (nei quali si potevano forse riconoscere molti spettatori seduti in platea), in grado di rendere il suo salotto il miglior luogo di divertimento per le sfrenate e lussuriose notti parigine. L’azione della storia fu inoltre spostata indietro, nel 1700, una pratica che già altre opere di Verdi, e non solo, avevano subito. A volte si ricorreva ai turchi: tutto quello che si doveva criticare ma non si poteva dire apertamente veniva ambientato tra i turchi e il motivo è chiaro, come a dire: non siamo noi, non sta parlando di noi, è una storia che riguarda qualcun altro, tanto tempo fa… Invece Verdi, solamente cinque anni prima, nel 1848, aveva assistito a Parigi a uno spettacolo teatrale, “La signora delle camelie”, e aveva deciso di utilizzare quella storia contemporanea per farne un’opera.  

Ma insomma, non poteva scegliere un’altra storia che gli complicasse meno la vita e non creasse ostacoli a lui e problemi col pubblico? No, voleva proprio un materiale scottante, un tema attuale. Muovendosi con la rapidità e la destrezza di un vero imprenditore, nel giro di cinque anni tutto era già pronto per far conoscere la sua versione al pubblico di Venezia dove infatti “La traviata” debuttò al Teatro La Fenice nel 1853. La censura eliminò tutti i riferimenti a Dio perché non si poteva accettare che una prostituta potesse pregare. A Violetta Valéry, in quanto prostituta, non era riconosciuto questo diritto. Verdi invece le fa pronunciare una preghiera bellissima: “Della traviata sorridi al desio, a lei, deh, perdona; tu accoglila, o Dio”. Violetta prega, invoca Dio, e questo non stava bene. Per cui anche singoli vocaboli che potevano avere un’attinenza religiosa, come ad esempio “croce” vengono sostituiti: il celebre verso, entrato poi nell’uso comune, “croce e delizia al cuor” diventò “pena e delizia”. 

Tutti i riferimenti al piacere sessuale che Violetta incarna furono cancellati: “al piacer m’affido” diventa “alla danza m’affido”. La voluttà di Violetta, che la rende inafferrabile e seducente, non era accettabile: “La fuggevol ora s’inebri a voluttà” divenne “soave scorrerà”.  Verdi andando contro l’ipocrisia del suo tempo riconosce a questa prostituta il diritto di essere credente, di poter invocare Dio e chiedere la protezione di Dio. Celebra la femminilità di una donna sfruttata, additata come la peccatrice, una donna che si porta addosso il giudizio negativo della società e del potere ecclesiastico. Ma perché faceva così paura questa creatura che Verdi voleva presentare nella sua verità più limpida? Ci sono state tante prostitute nella letteratura, cos’ha di così particolare questa donna? Una sola è la parola adatta a descrivere Violetta Valéry: libertà. Violetta è una donna libera, lo canta con orgoglio e sicurezza, lanciando nell’aria un accento fiero e rabbioso reclamando il diritto a essere felice e indipendente. A essere libera. Violetta è “sempre libera”. Libera di folleggiare come e quando vuole per i sentieri del piacere senza dover rendere conto a nessuno. Violetta proclama la sua libertà, la sua indipendenza, ma questa libertà va bene fintanto che rientra in un accordo: io ti pago e tu sei libera di essere una prostituta. Nel momento in cui vuole uscire da questa dimensione ecco che la libertà diventa pericolosa perché questa donna non rientra più in una delle caselle che la società utilizza per inquadrarla. La libertà di Violetta diventa scomoda e pericolosa. Tra l’altro Verdi stesso, nella sua vita privata, conviveva con una donna destando lo scandalo degli abitanti della piccola cittadina di Busseto, in provincia di Parma. In una lettera Verdi difende la sua situazione con queste parole: “In casa mia vive una Signora libera indipendente, con una fortuna che la mette al coperto di ogni bisogno. Né io, né Lei dobbiamo a chicchessia conto delle nostre azioni”. Leggendo questa lettera ho immaginato come sarebbe andata a finire la storia se fossero state proprio queste le parole che Alfredo avesse scritto al padre per difendere Violetta dalle accuse infami che il genitore le stava facendo. Se Alfredo fosse riuscito a scrivere una lettera così chissà come avrebbe sobbalzato, una volta tanto, l’oppressione paterna, che in Verdi costituisce spessissimo una minaccia potente e un ricatto morale tali da costituire un tabù inscalfibile. Dunque una signora libera e indipendente: questa è Violetta. Non sta bene che sia libera soprattutto perché è una donna. Se fosse stata un uomo le cose sarebbero state diverse, vedi ad esempio il “Don Giovanni” di Mozart che, certo, lo mandano all’inferno, ma solo negli ultimi cinque minuti dell’opera, mentre nelle due ore precedenti sul palcoscenico c’è un cavaliere che si muove in un folle turbinio orgiastico ed esibisce la sua protezione violentando donne e profanando cimiteri. Però è un uomo. A lui è concesso, è un dongiovanni appunto, un simpatico e diabolico mascalzone. Verdi, che non era quel docile vecchietto che campeggia sulle antiche mille Lire, si infuriò per quegli interventi della censura e scrisse: “La censura ha guastato il senso del dramma. Ha fatto la traviata pura e innocente. Tante grazie! Così ha guastato tutte le posizioni, tutti i caratteri. Una puttana deve essere sempre puttana. Se nella notte splendesse il sole, non vi sarebbe più notte”. Non sembra uno che ci vada molto per il sottile: vuole che si rispetti il senso del suo racconto, anche se la morale cattolica lo giudica sconveniente.

Rispetto a un’altra delle sue opere che subì la censura (“Un ballo in maschera”) Verdi ribellandosi a tutti i cambiamenti imposti scrisse: “Un Maestro che rispetti l’arte sua e se stesso non può né deve disonorarsi accettando per subbietto d’una musica, scritta sopra ben altro piano, codeste stranezze che manomettono i più ovvii principii della drammatica e vituperano la coscienza dell’artista”. Verdi non fa riferimento a ideologie, a posizioni politiche, non rivendica bandiere ma si riferisce solo alla sua “coscienza”. L’artista, quando è tale, può operare solo attraverso la bellezza del suo lavoro. Solo la qualità e la bellezza possono provocare scandalo. Verdi voleva che la sua Traviata fosse scomoda e scandalosa, nel senso etimologico di questa parola, essere cioè la pietra di inciampo che ti fa arrestare attraverso una mossa imprevista, uno scarto dell’immaginazione, una provocazione, attraverso la possibilità di dare voce a chi non ce l’ha, attraverso l’indignazione, la risata, la satira. Lo scandalo come la pietra che blocca l’ingranaggio oliato del pensiero comune, della maggioranza, dell’ipocrisia che vuole tenere nascosta la polvere sotto al tappeto. Il potere teme lo scandalo perché scopre e svela. E se riesce a farlo attraverso la creazione di bellezza allora diventa arte. Arte scomoda. Verdi sceglie di mettere in musica i romanzi di Dumas o i drammi di Hugo perché in quel materiale trova senso per la sua opera. Trova la sua voce autentica. Noi oggi celebriamo queste opere e tendiamo a immaginarle come fossero sempre state incorniciate dietro a una teca di cristallo, mentre sono il risultato di un acceso dibattito pubblico, di un confronto politico in grado di avere un fortissimo impatto sociale. Riflettere brevemente sulla parabola a cui fu sottoposta “La traviata” ci aiuta a comprendere l’urgenza che l’arte racconti la sua società con coraggio e sfidando l’ipocrisia morale, religiosa e politica. La politica deve saper accogliere lo scandalo. Deve coltivare chi sa metterla in discussione. Questa è la democrazia. Verdi ci insegna ad andare contro le regole del politicamente corretto e ci aiuta a capire quale sia il ruolo che oggi il palcoscenico e lo spettacolo dal vivo possono continuare ad avere se vogliono contare nell’opinione pubblica. Già negli anni 60 un critico come Nicola Chiaromonte scriveva che non esiste più un’opinione pubblica sul teatro.   L’elemento umano, di relazione, di scambio, di riconoscimento, di incontro e partecipazione è, in un periodo gonfio di realtà virtuale, ciò che fa e farà sempre più la differenza nelle scelte economiche del pubblico. In questo lo spettacolo dal vivo è una sorgente a cui il pubblico continuerà sempre ad abbeverarsi, purché chi ha l’ambizione di salire sul palcoscenico o scrivere per il palcoscenico sia in grado di creare un rapporto umano, diretto e popolare come riuscì al melodramma italiano di fine Ottocento, che pur scontrandosi con la censura si impose nel nostro immaginario collettivo fino a diventare l’emblema migliore del nostro paese.

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