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La forza del destino

Fate gli scongiuri, il Festival Verdi di Parma apre con l'opera jellata per eccellenza

Alberto Mattioli

Non nominatela, porta sfortuna, meglio chiamarla “la potenza del fato”. Fatto sta che la ventiquattresima composizione di Giuseppe Verdi farà da apertura per la kermesse che si svolgerà dal 22 settembre al 16 ottobre nella città emiliana

Primo: non nominarla. Mai e per nessuna ragione. Se proprio si deve, usare sempre delle perifrasi, ricorrere alle metafore, parlare per allusioni: “l’opera di San Pietroburgo”, “la potenza del fato”, “la ventiquattresima opera di Verdi” e così via, beninteso facendo i debiti scongiuri. Il motivo è molto semplice: porta sfortuna.

 

 Sì, La forza del destino (dal mio labbro uscì l’empia parola, ma il lettore deve pur capire di che si parla, la cito adesso e poi mai più, e in ogni caso dove ho messo le chiavi?) è l’opera jellata per eccellenza, quella che si fa ma non si dice perché sempre foriera di inconvenienti, incidenti, seccature, guai, sventure private e pubbliche calamità. Quindi non ci sarebbe alcun bisogno di parlarne, senonché il 22 l’Innominabile inaugura il Festival Verdi al Regio di Parma in una serata che si annuncia, come avrebbe detto Forlani, “complessa”. I suscettibili loggionisti locali sono infatti sul piede di guerra già da ben prima della “prima”, perché a cantare l’opera è stato chiamato il Coro del detestato Comunale di Bologna e non quello autoctono.

Siamo tutti volterriani e illuministi, ovvio, ma si sa anche che non credere alla jella porta jella, specie a teatro, il posto più superstizioso del mondo. E non si può dimenticare che il 4 marzo 1960, al Metropolitan di New York, il celebre baritono Leonard Warren aveva appena finito di cantare, ironia della sorte, “Morir, tremenda cosa” quando fra il cantabile e la cabaletta fu colpito da un infarto: zac, morto sul colpo (mors tua vita mea: Ted Morgan dell’Herald Tribune, che era in sala, vinse il Pulitzer per il suo racconto della tragedia). Quando il Fato si scatena, si verificano scioperi degli aerei e degli orchestrali, crisi isteriche o di voce, Padri Guardiani cui si stacca la barba, Preziosille che inciampano nei tamburi (e Alvari nel solfeggio, ma questo per i tenori vale sempre), stecche memorabili, sovrintendenti sfiduciati dal Consiglio di amministrazione fra la Sinfonia e “La vergine degli angeli”, e così via.

Si favoleggia perfino che la Potenza fosse in cartellone il 1° settembre 1939 al Wielki di Varsavia: e chi ti va a invadere Hitler? Tutto risale a una clamorosa gaffe del librettista, Francesco Maria Piave, il più docile e maltrattato fra quelli di Verdi, che lo chiamava “mona” perché era nato a Murano. A differenza di quel che si è sempre detto, Piave era un eccellente professionista, capace di mettere in versi magari non bellissimi ma efficaci e soprattutto sintetici l’eccellente teatro verdiano. Ma qui fece un errore. Nel 1862, quando l’opera debuttò a Pietroburgo, nel recitativo prima della sua aria don Alvaro cantava: “Fallì l’impresa”. Ovvio che tutti gli impresari teatrali iniziassero a girare con le mani sprofondate nelle tasche. Verdi se ne accorse e, nella revisione che approdò alla Scala nel ‘69, le note rimasero le stesse ma le parole divennero quelle attuali, “Fu vana impresa”. Ma ormai il danno era fatto e l’opera aveva acquistato quella fama che non l’ha più abbandonata, anche se Elvio Giudici, sommo sacerdote della critica operistica, ritiene che non si applichi alla Scala, dove semmai il Verdi sfortunato è Luisa Miller, chissà. Sta di fatto che la prima vittima fu proprio Piave: manco a dirlo, è l’ultimo libretto che scrisse per Verdi, poi nel ‘66 gli austrici gli arrestarono il fratello per altro tradimento, la madre impazzì e l’anno seguente fu colpito da un ictus che lo paralizzò fino alla morte, nove anni dopo. 

Indagando, si scopre che il motto dei duchi di Rivas, la famiglia cui apparteneva Ángel Pérez de Saavedra y Ramirez de Baquedano, autore della tragedia Don Álvaro o la fuerza del sino da cui Verdi e Piave trassero la loro, era un malaugurante “Patire per vivere”, e cominciamo bene. In materia, anche Rossini aveva avuto i suoi problemi quando, a Napoli nel 1820, il libretto del Maometto II gliel’aveva scritto Cesare della Valle, duca di Ventignano, l’indiscussa star degli jettatori cittadini e come tale immortalato (senza nominarlo, per carità) da Alexandre Dumas padre in uno dei capitoli più riusciti del suo delizioso Le Corricolo. Inutile dire che al San Carlo il Maometto fu un fiasco solenne: perché troppo ardito nella concezione e troppo in anticipo sui tempi e sul pubblico, ci hanno sempre detto i biografi, ma noi sappiamo bene che la ragione vera furono i malefici influssi del librettista. Sempre niente rispetto alla potenza distruttrice, al concentrato di malasorte, alla spremuta di sfiga che può sprigionarsi dalla Forza del des…, ops, scusate, volevo dire: da quell’opera lì.

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