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Il lutto

Robbie Robertson era il carisma rock fatto persona

Stefano Pistolini

Il leader di The Band e favorito di Dylan sarà rimpianto per sempre dagli amanti di un suono che ormai appartiene al passato, ma anche a un’intramontabile classicità. Un ritratto 

Robbie Robertson era il carisma rock fatto persona, oltre che un figo pazzesco. Era anche un magnifico chitarrista. E una persona simpatica. E’ stato per 10 anni il leader della Band, il consigliere del periodo amletico di Bob Dylan e un protagonista assoluto della scena musicale, oltre che uno smagliante punto di riferimento, una vera àncora nella descrizione della canzone americana del Novecento. E’ morto mercoledì a 80 anni, circondato dall’affetto dei suoi, e sarà rimpianto per sempre dagli amanti di un suono che ormai appartiene al passato, ma anche a un’intramontabile classicità. Robbie nasce a Toronto nel ’43 col cognome ebreo Klegerman, quello del primo marito di sua madre Rosemarie, nativa americana della tribù Mohawk cresciuta nella riserva delle Sei Nazioni che, presto rimasta vedova, risposa l’operaio canadese che darà il proprio cognome al piccolo Robert. Cresce con una chitarra in mano e a 16 anni è già in pista nel circo viaggiante della musica, al seguito di Ronnie Hawkins, popolare e apprezzato lavoratore del rockabilly. Poco alla volta il gruppo che accompagna Hawkins raccoglie coloro che diventeranno i membri di The Band, ovvero Levon Helm, Richard Manuel, Garth Hudson e Rick Dank. 

Un meraviglioso concentrato di talento musicale puramente americano, a cui non manca niente per diventare Storia: look naturale, voci inimitabili, facce scolpite, vissuto turbolento, quel suono nelle vene e nelle mani. Nel ’66 Robertson viene scelto da Bob Dylan per suonare la chitarra nei solchi di “Blonde on Blonde”, l’album con cui rimescola in modo inaspettato le carte della canzone americana. Dopo il famoso incidente in moto di Dylan, è proprio Robertson a occuparsi di trasformare la sua enigmatica convalescenza in uno dei più esoterici e ammirati laboratori musicali della storia della pop music, ambientato nella famosa fattoria di Woodstock dove prendono forma i “Basement Tapes”, oggi considerati come il criptico esame di coscienza del suono tradizionale americano al cospetto della modernità. Ma ormai per Robbie e gli altri è tempo di andare per la propria strada e nasce The Band, un ensemble capace di scuotere la scena internazionale grazie a un paio di dischi-capolavoro come “Music From Big Pink” e “The Band” in cui trovano posto capolavori come “The Night They Drove Old Dixie Down”, “Up On Cripple Creek” e “The Weight”, tutti nati da una scrittura collettiva a cui verrà attribuita l’impegnativa etichetta di “Americana” e di cui Robertson nel frattempo avrà assunto la leadership. Cosa c’è dentro? Semplicemente tutto, folk, country, blues, gospel, r’n’b, rock’n’roll e anche un certo spirito musicale conservativo ma non conservatore, comunque anti-modernista. E poi letteratura, molta letteratura, con un repertorio di canzoni abitate da personaggi prelevati dal migliore grande romanzo d’oltreoceano – Faulkner, Caldwell e Dos Passos davanti a tutti. Il gruppo, popolato com’è da personalità forti e tormentate, sopravvive per meno di una decina d’anni, indebolito dalle droghe e da un’attitudine talmente autodistruttiva da assumere tratti tragici, che qualche anno dopo culminerà nel suicidio di Richard Manuel e nelle morte prematura di Danko.

Robertson decide dunque di concedere al gruppo un finale degno di questo nome e nel 1976 organizza a San Francisco il concerto imbottito di superstar che Martin Scorsese immortalerà in “The Last Waltz”, l’ultimo valzer, da più parti considerato il film che meglio di ogni altro coglie la tensione, l’estasi e la maledizione del rock. Poi The Band implode, divorata dalle liti, dagli ego, dalla stanchezza di troppi stravizi consumati insieme. Per Robertson si apre una lunga carriera solista, punteggiata da buoni album, contraddistinta dal crescente impegno per molte buone cause, a cominciare da quella dei nativi americani, di collaborazioni importanti, in particolare di nuovo con Scorsese, per il quale Robbie cura le scelte musicali di cinque lungometraggi. Anno dopo anno, Robertson viene investito del prestigio e il rispetto del padre fondatore di un rock che comincia a tramontare, consapevole testimone del senso della musica che ha rivoluzionato la vita di milioni di persone. Al di là delle sue canzoni, capaci di essere viscerali e cristalline al tempo stesso, per capirlo vale la pena riscoprire alcune delle interviste in cui Robbie – con voce calda, sguardo liquido, sublimi giacche di velluto e fascino magnetico – parla come un papa del rock, un professore dei suoi meccanismi, un pubblico ministero delle sue miserie, ma anche un avvocato del suo inestinguibile valore: la magia di ragazzi turbolenti con le chitarre elettriche, di motel puzzolenti e dollari da scialacquare, di infinite storie da raccontare. Una miscela esplosiva, pronta ad accendere la miccia dei grandi cambiamenti.

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