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La novità e la carriera

Cosa si può fare con una canzone? Il ritorno di Bob Dylan in “Shadow Kingdom”

Stefano Pistolini

Il cantautore statunitense nel suo nuovo album porta avanti un’indagine esoterica, in 53 minuti di rivisitazioni e riletture. Al di là dell’aspetto commerciale, resta un’operazione riuscita

Torna Bob Dylan con un nuovo album, “Shadow Kingdom”. Inizialmente, si direbbe, atmosfere un po’ alla “Blood on the Tracks”, ma senza più blood, sangue, urgenza. Piuttosto un bancone del bar da una parte della stanza, certamente rivestita di legno, e al posto dell’ossessione che da sempre lo perseguita – “da dove viene questo nostro suono? Cosa c’è prima di lui, prima della sua generazione?” – un concept meno ansioso e più sofisticato: cosa si può fare con una canzone? Dati i parametri essenziali – un testo che dica qualcosa, una melodia aggraziata, un paio di trick identitari, soprattutto l’adesione a un canone riconoscibile – cosa permette di fare una buona tecnica del montaggio?

 

Moltissimo di sicuro, quasi all’infinito, è la risposta, ovvero si può rieditare il pezzo in una quantità sbalorditiva di varianti, ottenendone versioni diverse che alla fine cosa sono? Riletture, rimasticature, ripensamenti? Ma no, cosa volete gliene freghi a Dylan, a 83 anni e a 60 dalla stesura di quel pezzo, di esplorarne le “versioni”. Lui vuole ricavarne il gusto di un’indagine più esoterica, diretta all’essenza originale di quella scrittura, all’atto stesso d’aver creato quel mondo, come stesse aggirandosi tra le pagine più stropicciate del dizionario d’uno scrittore. Significa avvicinarsi ancora un po’ di più alla matrice, da tempo immemore vera ricerca di Bob, afferrare il perché lui stesso abbia dentro quella musica intesa come plesso psicologico del sé, e in che modo quella stessa idea musicale si possa configurare allorché lui le permetta di fluire, tornandoci innumerevoli volte sopra, modellandola, giocandoci, plasmandola come morbida creta. Ed ecco che le canzoni si riconfigurano, si modificano, assumono fogge differenti, s’adattano al tempo e allo spazio, senza mai smettere di contenere, di portare dentro la volontà dell’artista e dunque la sua personalità, per quanto costellata di dubbi.

 

Diciamo che questa è una possibile premessa di ascolto di “Shadow Kingdom”, per predisporvi a 53 minuti di rivisitazione dylaniana con piccola compagnia cantante (non gli ultimi venuti: pochi ma buoni, tra gli altri Don Was al basso e T-Bone Burnette alla chitarra e rigorosamente niente batteria e percussioni, che hanno solo l’effetto di rintronarti). Aggiungendo una postilla: davvero pensate sia di particolare interesse per un uomo che scrive canzoni da quasi settant’anni, sforzarsi a scriverne di nuove, come se non avesse già interamente espresso la propria visione, il suo campionario, le necessità? No, certo che non lo pensiamo.

 

E allora concediamoci serenamente l’ascolto di “Shadow Kingdom”, progetto che nasce in tempo di post-pandemia come laboratorio di restauro, remake/remodel, di pezzi stagionatissimi, quasi tutti pescati nel repertorio anni 60 (fanno eccezione “Forever Young” del ’73 e “What Was It You Wanted” che viene da “Oh Mercy”, dell’89). Del resto il sottotitolo del progetto è “The Early Songs of Bob Dylan”, originariamente prodotto ed eseguito in favore delle telecamere dirette da Alma Har’el in un fighettissimo b/n e con ambientazione boite di Marsiglia (un “Bon Bon Club” uscito chissà da quale recesso della fantasia del titolare), per uno special streaming che successivamente Dylan ha voluto evolvere in un album vero e proprio, per il quale i brani sono stati rifatti in studio. Suoni completamente acustici, tutti strumenti a corda, anche la chitarra elettrica amplificata il minimo indispensabile, molta fisarmonica e niente pianoforte. Bob in forma vocale smagliante, su quei timbri più vellutati, flautati, che rispolvera quando è nella fase “nightclub singer”. Una versione prodigiosa di “Tombstone Blues”, come una litania quasi a cappella, a parte qualche accordo aperto di chitarra, in cui riluce un’interpretazione strepitosa, e poi tanti rifacimenti in una veste che definiremmo proto-rockabilly, con uno stile che gli esegeti del verbo dylaniano si sono affrettati a collocare all’imbocco degli anni Quaranta.

 

Nel complesso un’altra operazione piuttosto geniale, capace anche di tener conto dell’aspetto commerciale, di cui il nostro mai si dimentica. Perciò si ascolta l’album e si ha la sensazione di affrontare una diversa esperienza dylaniana, che non è poco, vista la sterminata estensione della sua carriera. Perché Dylan sa ancora ritornare e sintetizzare, e tratta prodigiosamente le canzoni come strumenti della propria filosofia, la stessa espressa nel suo recente saggio “Filosofia della canzone moderna”, secondo il quale dobbiamo rifuggire dalla nostalgia, compresa quella evocata da certe melodie, legate a ricordi sostanziosi. Invece dobbiamo penetrare quelle note, afferrarle, metterle in ordine diverso, sentirle di nuovo pulsare di qualcosa che è il presente. O almeno a lui piace fare così. E scusate se è poco.

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