facce dispari

Lino Vairetti, il volto dipinto di cinquant'anni di rock

Francesco Palmieri

Intervista al frontman degli Osanna, gruppo che ha fatto la storia del rock progressivo italiano: "Mi affascinava l’idea di superare la forma canzone e di raccontare la musica anche sotto il profilo visivo. La nostra ispirazione furono i volti di Picasso"

Da più di mezzo secolo il vero volto di Lino Vairetti, per chi conosce gli Osanna, non è quello che ha mostrato tutti i giorni ai suoi studenti del liceo artistico né quello con cui presenta le sue opere alle mostre di grafica e pittura, ma è la faccia dipinta del frontman, dell’autore dei testi nonché unico sopravvissuto tra i fondatori di un gruppo che ha fatto la storia del rock progressivo italiano. Gli Osanna esordirono al Festival di Caracalla nel 1971 e risorsero nel ’99 dopo una interruzione ventennale per non fermarsi più fino a scrivere l’ultimo capitolo ad aprile scorso, con la messa in scena dell’opera rock ‘Palepoli’ al Teatro Trianon Viviani di Napoli.

 

I volti dipinti e i sai colorati degli Osanna sono un fotogramma emblematico dell’Italia tra il Sessantotto e gli anni di piombo. Come vi venne l’idea?

Frequentavo l’Accademia di Belle Arti dove mi sarei diplomato in scultura e assistevo agli happening del Living Theatre di Julian Beck, all’avvento di nuove tecnologie musicali come il Mellotron e i sintetizzatori, partecipavo ai fermenti politici e ai rivolgimenti culturali di quegli anni. Mi affascinava l’idea di superare la forma canzone e di raccontare la musica anche sotto il profilo visivo. La nostra ispirazione furono i volti di Picasso, e il fatto che costasse poco indossare quei sai e pitturarsi la faccia ci spinse a questa scelta estetica.

 

Nel 1971 con ‘L’uomo’, un brano e un album dalla struttura innovativa, arrivò il successo.

E chi se lo aspettava. Gli amici mi prendevano in giro perché mi ero ostinato su quel progetto, che nasceva dal mio interesse per Giacometti, Sartre e l’esistenzialismo. Le case discografiche si resero conto che questo nostro tipo di rock progressivo piaceva al pubblico e fecero a gara per prenderci. Fu la fortuna di trovarsi al posto giusto nel momento giusto. Nel ’72 seguì il successo della colonna sonora del noir ‘Milano calibro 9’ di Fernando Di Leo, con Luis Bacalov, che sarebbe diventata un classico proprio come il film.

 

L’idea di pitturarsi il volto sarebbe stata ripresa da diversi artisti. È vero che Peter Gabriel s’ispirò a voi?

Sì, il nostro look lo colpì moltissimo. Incontrammo Gabriel nell’aprile del ’72 con i Genesis, quando tennero due concerti al Teatro Mediterraneo di Napoli. Eravamo già all’apice della notorietà e stavamo preparando la registrazione di ‘Palepoli’. Il nostro manager ebbe l’idea di organizzare un tour assieme, sei serate estive degli Osanna e dei Genesis. La data conclusiva, a fine agosto, fu a Genova, e al termine del concerto improvvisammo anche una jam session. Quando i Genesis tornarono nel ’74, ormai famosissimi, andai sul palco per fotografare un loro concerto.

 

Sono rimaste famose anche le sue foto a Pino Daniele. Come lo conobbe?

Nel ’75 venne a casa di mia madre, dove avevo attrezzato l’home studio, e mi chiese di ascoltarlo. Mi venne la pelle d’oca: capii che quel ragazzo era destinato alla celebrità cui agognava con tutte le forze. Cantava male, ma quel modo peculiare di adoperare la voce sarebbe stato una nota vincente. Litigammo quasi subito perché aveva un caratterino difficile, però quando la Emi gli fece il contratto per il primo 45 giri, ‘Ca calore’, volle che gli scattassi la foto di copertina. Ci perdemmo di vista quando se n’andò a vivere a Formia ma tanto tempo dopo, un anno prima che morisse, suonammo assieme nei concerti di ‘Napule è - Tutta n’ata storia’ al Palapartenope.

 

Il vostro rock colto è storia d’altri tempi?

Sono cresciuto negli anni di una ricerca quasi rivoluzionaria delle novità e per questo oggi non mi sento di criticare l’evoluzione dei tempi, però è un fatto che adesso lo show business ha preso il sopravvento e qualsiasi scelta culturale viene subordinata ai soldi. Non giudico le nuove generazioni e non dico che noi fossimo migliori, ma mi piace ancora quel che faccio e gli Osanna continuano a proporlo. Ho il vizio di aver vissuto quando esistevano Jimi Hendrix, i Rolling Stones, i King Crimson, i Pink Floyd. E nemmeno posso chiedere scusa per questo.

 

Però il rock progressivo italiano in un modo o nell’altro è sempre vivo.

Il prog riemerge ogni volta che nella società s’avverte un calo culturale. Al tramonto di ogni moda, e mentre sta per fiorirne un’altra, il prog rispunta grazie alla sua vitalità artistica e forse proprio per il paradosso di non essere più commerciale. Ci sono diciottenni che hanno scoperto il prog e se ne sono appassionati esplorando YouTube. Tuttora gli Osanna sono conosciuti in Messico, Cile, Brasile, Perù. Abbiamo tanti tour alle spalle e in Giappone siamo considerati al pari dei Genesis.

 

Perché vi battezzaste Osanna?

Per caso. Io insistevo per il nome Città Frontale, quello di una serie di sculture di Pietro Consagra, ma il flautista Elio D’Anna disse che era troppo intellettuale. Ci riunimmo sempre a casa di mia madre, che era il nostro quartier generale, e il batterista Massimo Guarino prese un vocabolario. Lo aprì a casaccio, puntò il dito su una pagina e indicò: Osanna. Piacque a tutti. E fu una scelta vincente.

 

C’è una canzone che le fece scoccare l’amore per la musica?

‘Notte senza fine’ dell’Equipe 84. Quando sentii Maurizio Vandelli che la cantava al Festival di Napoli del 1965 rimasi folgorato e per la promozione in secondo liceo chiesi in regalo una chitarra. Avrei scoperto solo dopo i Beatles e i Rolling Stones.

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