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"Club 27"

Metafisica di Kurt Cobain: morì 30 anni fa per restare giovane per sempre

Stefano Pistolini

La decisione del chitarrista di mettere fine ai propri giorni con un colpo di carabina alla testa si trasformò in un immediato, dolorosissimo, lutto collettivo. Così la rockstar che visse rifiutando il mondo intero è entrato nella lista degli "eterni cristalli"

Spari nel buio. Lo choc fu paragonabile solo a quello deflagrato quattordici anni prima, quando John Lennon venne assassinato di fronte al Dakota di New York. Eppure la morte per suicidio di Kurt Cobain era un epilogo largamente annunciato e tutt’altro che improbabile, per chiunque coltivasse l’amore per il cardine vivente della cultura grunge e per i suoi Nirvana, la band-manifesto ormai già esaurita nella sua corsa, ridotta a un’ipotesi musicale teorica.

A dispetto delle repentine scomparse di tanti altri 27enni come lui, Morrison, Hendrix, Joplin, Brian Jones – ribadendo che la morte per eccessi o per caos fosse il finale ricorrente di queste esistenze volontariamente dimostrative – la decisione di Kurt di mettere fine ai propri giorni con un colpo di carabina alla testa, da solo, nella dependance della villa alla periferia di Seattle, si trasformò in un immediato, dolorosissimo lutto collettivo. Culminato, poche ore dopo il fatto, in quella straziante lettura pubblica della sua lettera d’addio, per bocca della consorte Courtney Love, a favore di telecamere e circondata dai fans in lacrime. Qualcuno se ne ricorda ancora? “…meglio bruciare subito che spegnersi lentamente. Pace, amore, empatia”, così terribilmente fanciullesco. Era il testamento di una sottocultura generazionale, la liquidazione di un tragitto fatto insieme.

Se nel caso di Lennon la psicologia del fan aveva sofferto di una privazione, perché una violenza assurda gli aveva sottratto il titolare dei suoi transfert, nel caso di Kurt emergeva l’impatto della sua effettiva coerenza: la sua debolezza, la sua predisposizione alla resa, la sua estraneità al meccanismo sociale dimostravano con il suo suicidio di non essere una posa o un atteggiamento artistico, ma un’esperienza reale, di fronte alla cui inerme esposizione restava solo l’impotenza della moltitudine che aveva creduto in lui e che ora – lo si temette in quei giorni – avrebbero potuto imitarlo. Per fortuna non accadde niente di tutto ciò, non ci fu la paventata ondata di suicidi imitativi ma solo quell’enorme, banale cordoglio e il senso della privazione.

Correva l’aprile del 1994, epilogo dei mesi che avevano scandito la discesa all’inferno di Cobain: il malfunzionamento della vita di coppia con l’inquieta consorte, le liti, i tradimenti, l’incapacità di canalizzare su Francis Bean, la figlia appena nata, un flusso affettivo che diffondesse serenità; il progressivo disinteresse per la band che era stata il suo gesto creativo, della quale rifiutava caparbiamente l’ormai indifferibile inquadramento nel music business e la banalità dello status di rockstar; le dimissioni dal ruolo simbolico di incarnazione del grunge, spirito alternativo che rifiutava la vanità, rivestendosi di estremismo romantico, nichilismo e marginalità. Erano gli anni che celebravano l’indolenza e l’abulia giovanile, l’ansia e l’insicurezza degli slacker, coloro che rifiutavano perfino di essere dei perdenti, perché, prima di cominciare, dichiaravano di non aver voglia di giocare. Cobain, con una genuinità a tratti ruspante, coi suoi messaggi ingenui e irrevocabili, con la sua adesione assoluta alla natura dell’underground, aveva stabilito uno standard terribilmente sexy: lo diventava semplicemente scuotendo la testa, voltando le spalle, dicendo d’avere mal di pancia, indossando cardigan verde pisello e occhiali da pensionata di Miami, mascherandosi sul palco da infermiera o presentandosi in scena su una sedia a rotelle, drogandosi ma vergognandosene, con la controvoglia, restando sciatto, fumando troppo, scusandosi per non aver niente da dire, salvo fare un risolino di sfottò, da piccolo selvaggio del far west suburbano.

Il resto erano la sua faccia, i suoi occhi retroilluminati, la sua scrittura lirica e rumoristica, l’immaginazione popolata di incubi fumettari e, soprattutto, la sua voce, la più grande voce bianca di fine secolo, quella indispensabile per seppellire il Novecento del rock. Trent’anni dopo, trent’anni dopo il concerto del Palaghiaccio di Marino che fece scrivere a Nick Kent, il più accreditato reporter punk, di aver visto suonare un cadavere, trent’anni dopo il primo tentato suicidio all’Excelsior di Roma, che rese proprio noi italiani cronisti della sua fine, questi sono ruderi ricoperti di muschio. È cambiata la musica, si è distorta l’America, si è polverizzato il concept controculturale: Kurt è morto prima dell’internet per tutti, dei social e prima di uno smartphone in ogni tasca.

È entrato nella lista degli eterni cristalli, i giovani per sempre: una forse invidiabile condizione mitica e narcisistica, figlia del rifiuto come opzione primaria. Troppo insulso per sopravvivere alla flanella, per sottomettersi all’imbolsimento e per moderarsi in vista della sopravvivenza. Tutta questa fede, questi intenti senza compromessi, questo interpretare la propria devastazione, hanno annullato il Cobain vivente e delineato la sua eterna versione metafisica. Con un design così perfetto, da servirla nel giro di poche ore sul vassoio degli inossidabili stereotipi culturali, laddove la tua faccia finisce sulle t-shirt e nessuno, in fondo, avrebbe più desiderato vederti essere ancor qui, da anziano narratore di passate gesta. 

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