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La Reunion

Ma quali Coldplay, il trofeo di gruppo pop dell'estate va di diritto ai Blur

Stefano Pistolini

Il complicato e memorabile ritorno sulle scene della celebre band brit pop, una successione di trionfi sui palchi di mezza Europa. Durerà solo una stagione: poi i quattro ex ragazzi torneranno alle loro stimolanti avventure musicali soliste

Surclassando perfino le sofisticate strategie di piacioneria dei Coldplay, assegniamo il trofeo di gruppo pop dell’estate ai Blur e al loro complicato, stratificato ritorno sulle scene, sia live (con la memorabile esibizione di Lucca) che discografiche, con “The Ballad of Darren”, nono album di studio della loro produzione, otto anni dopo che “The Magic Whip” aveva celebrato la precedente reunion del quartetto di Colchester. Stavolta il discorso è inevitabilmente innervato di psicologia generazionale, in quanto sia la serie di concerti che i Blur stanno facendo in giro per l’Europa, sia l’album in questione, sono concepiti all’insegna di un sentimento: il rimpianto per le cose andate e la raggiunta consapevolezza che permette d’assegnare loro il valore che meritano. Albarn e soci agiscono, pubblicamente e musicalmente, avendo ben chiaro che la questione non riguarda solo loro, ma anche e soprattutto coloro che li hanno pazzamente amati quando erano ragazzini e che si ritrovano adesso, appesantiti e imbruttiti, a confrontarsi col ben noto “fanciullino” che abita in ciascuno di noi. I Blur sono stati lo specchio d’una nazione e di un suo momento storico, tanto lontano quanto diverso da quello attuale, al punto da creare una frattura che, com’è inevitabile, tende a riempirsi di rimpianti. Albarn lo mette in chiaro in “The Ballad” canzone di apertura dell’album: “Ho appena guardato nella mia vita / e tutto quello che ho visto è che non tornerai” canta, inaugurando un profluvio lirico fatto di dolori e pentimenti ma anche di orgoglio e di empatia, spaziando dal “Ho fatto cazzate / non sono il primo a farlo” (“Charles Square”) al laconico versetto di chiusura di “The Everglades”, “Inoltre, penso che sia semplicemente troppo tardi!, a dispetto che tutto sia stato un’avventura bellissima e “Abbiamo girato il mondo insieme”, approfittando di quel fato che li ha investiti di un gran bel ruolo: “Ogni generazione ha i suoi dorati poseur”.

A proposito: il titolo di “The Ballad of Darren” onora Darren “Smoggy” Evans, il security che da sempre scorta i Blur e ha condiviso i loro segreti: riaffiora il culto Mod dello splendore dell’“everyman” che fece brillare “Park Life” e, più in generale, la naturale grazie d’una gioventù inglese di fine Novecento, con i suoi inconsapevoli lads come modelli di ruolo. La differenza è che adesso c’è la coscienza che fosse quel fattore di crescita, quella successione di “prime volte”, a rendere irripetibile l’esperienza raccontata da una polifonia di voci sotto la sigla “brit pop” e che ciò che viene dopo comporta scelte brusche e crudeli: chiudere la porta, stipare in un baule quella materia emotiva, passare oltre. Oppure restare avvinti a quella fantasticheria, crogiolarsi nella memoria, abbandonarsi alle reverie e andare in cerca di chi può condividerle con te. E così rimettere su la band, osservarsi in tralice, annotare le bellezze scomparse, conteggiare le reciproche cadute, l’eroina di Damon, l’alcolismo di Graham Coxon, mettere da parte i dissidi e la montante, irrequieta sensazione d’insopportabilità che a un certo punto frantumò tutto, e infine rifarlo: tornare in sala di registrazione, agevolati amorevolmente da un produttore ipersensibile come James Ford, pubblicare un piccolo capolavoro come “The Ballad of Darren”, in cui riluce il talento di cui questo sodalizio continua a essere titolare. E infine concedersi un’altra estate eccezionale, una successione di trionfi sui palchi di mezza Europa, che hanno l’aura declinante della mezza età, eppure rilanciano scintille della gloria impalpabile da cui i Blur sono avvolti dal loro primo apparire – così cool, svelti, dritti da farci desiderare d’essere come loro, oppure da renderceli terribilmente antipatici. La cosa, è inevitabile, avrà solo il respiro d’una stagione. Poi la compagnia si scioglierà, i Blur torneranno a essere una sigla inerte e la parola d’ordine di riconoscimento tra i membri della stessa setta, e i quattro ex ragazzi torneranno alle loro stimolanti avventure musicali soliste, siano I Gorillaz, i Waeve o le produzioni individuali degli altri due. Pensare che Damon, il più urbano eroe di questa scena, il tipo che la sera t’aspettavi d’incrociare con la pinta in mano all’evento più ganzo in città, adesso vive in campagna, ne più né meno di quanto fece George Harrison nella parte conclusiva della propria vita, è l’epitome del tutto. Poi non è detto che tra qualche tempo tornino a riempire ancora una volta il venerabile Wembley che hanno ribattezzato il “tempio agnostico”, con un’altra edizione dei loro suoni eleganti e dolorosi, con l’estasi evocata dai gorgheggi di Damon e i ricami isterici della chitarra di Coxon (mai splendida e a fuoco come in questo disco), rammentandoci comunque di sottoscrivere la rabbiosa, necessaria ammissione contenuta in “Barbaric”, il pezzo-manifesto dell’album: “Abbiamo perduto quella sensazione / che non avremmo mai pensato di perdere”.

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