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un viaggio strano

L'ennesimo ritorno dei Blur. Le anime geniali, Damon Albarn e Graham Coxon, si ricongiungono

Stefano Pistolini

Dopo avere cantato il nuovo millennio e aver preso strade diverse, i due musicisti hanno annunciato la reunion della band che culminerà in una storica giornata allo stadio di Wembley a Londra il prossimo 8 luglio

E’ un viaggio strano essere stati i Blur e poi diventare grandi e ritrovarsi ultracinquantenni – Damon Albarn 54 e Graham Coxon 53. E comunque essere ancora i Blur, dal momento che è stata annunciata l’ennesima reunion della band che culminerà in un’altra giornata storica allo stadio di Wembley il prossimo 8 luglio, dopo date di riscaldamento a Barcellona, Madrid, Dublino e Parigi con prevedibile, oceanico convegno di stempiati figli degli anni Settanta in vena di reminiscenze degli splendori di fine Novecento.

 

Eppure mai come adesso Damon e Graham seguono strade artistiche individuali lontane tra loro, com’è prevedibile che sia per i membri-chiave d’una formazione che ha smesso d’esistere praticamente da un quarto di secolo. All’epoca Damon era il carismatico leader, oltre che l’emblema sexy del Britpop, il maestro di stile, l’interprete dell’attitudine cool con cui andare incontro al nuovo millennio e alle sue rivoluzioni con leggerezza, sapienza e paraculaggine. Coxon invece era l’anima più dark e indie dei Blur, il più musicista, quello connesso a fattori fondanti del suono inglese come l’autonomia, il gusto della dissacrazione, la libertà di sperimentare.

Una volta che la band è implosa, le loro strade si sono divaricate: Albarn ha imboccato con entusiasmo e disordine la vicenda-Gorillaz, costellata di gossip nello stereotipo della popstar, mentre Coxon s’immergeva più a fondo nell’underground creativo di cui sentiva il bisogno e il richiamo. Perciò è interessante che oggi, alla vigilia delle prevedibili celebrazioni che coincideranno con la resurrezione della band, della relativa “park life” e della loro capacità di traversare in modo blasé il mondo della musica, i due artisti abbiano pubblicato in sincronia i rispettivi nuovi album, testimonianza dell’abissale distanza della loro visione, ma anche della quantità di talento che entrambi riescono ancora a governare.

Cracker Island” è l’ottavo titolo nella discografia dei Gorillaz, che fu la prima virtual band d’oltremanica, nata nel 2001 dal sodalizio tra Damon e il cartoonist Jamie Hewlett e divenuto rapidamente un laboratorio multimediale di successo, capace di sfornare materiali – musicali, ma non solo – per la modernità e le classifiche. Una specie di circo periodico, nel quale Albarn, col suo tradizionale approccio casual e sciamannato, ha radunato legioni di ospiti speciali, assortendoli nei modi più inconsueti e canalizzandoli verso un suono edonista e disperato al tempo stesso, molto “fine del mondo” e un po’ “Mad Max in ecstasy”, su perenni beat di latin dance. Propositi confermati in questa nuova uscita, dove però Damon ritrova lo smalto degli esordi, ultimamente un po’ consunto e banalizzato, con un convegno di partecipazioni eccellenti tra cui Stevie Nicks, Beck, un brillante Bad Bunny, Thundercat e membri di Tame Impala e Pharcyde. Echi reggaeton e caraibici, molti riff buoni per il vostro iPhone e diffusa malinconia – “Sono all’1 per cento ma sono con voi”, canta Damon, anzi 2D, il suo alter ego nei Gorillaz, in un trip di fantascienza al miele e marijuana. 

 

Anni luce da ciò che capita a Graham Coxon, che dopo aver trovato l’anima gemella nella vita e nella musica in Rose Elinor Dougall, racconta che un giorno di gennaio, camminando romanticamente con lei nel fango di Hampstead Heath, ha avuto l’illuminazione su ciò che insieme potevano combinare: un progetto a due teste, a forte tasso artistico, di dimensione britannicamente fredda, elettrica, urbana, eppure illuminato da citazioni colte e reminiscenze tradizionali. “The Waeve” è il titolo del loro lavoro e il nome dell’ensemble creato da Graham e Rose (che fu una delle Pipettes, band di revival fifties, agli antipodi dal suo attuale lavoro, diviso tra sintetizzatori e vocalità jazzy). Il bello è che il sodalizio funziona in modo straordinario, rendendo concreta la comunione di intenti e d’ispirazione: la chitarra di Coxon decolla spesso su scale blues, il suo sax graffia dalle parti di James White dei Contortions, il canto di Rose è competente e spesso splendido, il suono generale fa pensare a cose del passato come i Wire o addirittura Roxy Music, e l’album è un gioiello. 

 

Poi, a questo punto, un certo giorno Graham e Damon chiuderanno i laptop da cui pilotano i loro disegni contemporanei e torneranno a infilarsi il parka. La Brexit-Britannia saluterà con affetto questi eroi dell’Uk di Tony Blair, degli anni dell’effervescenza e delle opportunità, di una Londra che swingava come non ha più saputo fare. E il fatto che due percorsi creativi diversi possano ancora incontrarsi, celebrarsi e ricordarsi, offre del tutto una descrizione compiuta e pacata. E un apprezzabile senso dell’idea di evolversi, anche dentro al mondo della pop music.

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