Foto di Cosima Scavolini, via LaPresse  

Il ritratto

E Sonny Rollins prese il sax e fece uscire un fiume di note

Marco Ballestracci

Il solista jazz, colosso e leggenda, suonava anche quindici o sedici ore al giorno sulla corsia pedonale del ponte di Williamsburg, che collega Manhattan a Brooklyn. La ricerca della solitudine, una lezione per i creativi di ogni tempo

Se in campo musicale si vuol parlare di leggende, la branca che in assoluto ne partorisce il maggior numero è la musica afroamericana. Intendiamoci, non leggende nel senso di musicisti straordinari e indimenticabili, ma di ciò che s’intende nel vocabolario con codesto sostantivo: “Fatti che quando non siano immaginari, sono alterati dalla fantasia e dalla tradizione”. In questo senso i musicisti afroamericani sono degli autentici fuoriclasse. Le leggende sono, per esempio, elementi fondanti del genere musicale più basilare – il blues – che da oltre un secolo si trascina dietro il mito del patto faustiano: la cessione dell’anima in cambio della facoltà di saperlo interpretare, cantandolo o suonandolo, in modo straordinario. Ciascuno in cuor suo sa che si tratta d’una balla colossale, ma tutti abbozzano perché, insomma, la frottola colora quelle amate e immutabili dodici battute (il numero delle misure musicali che abitualmente identificano un brano blues) d’una tonalità misteriosa che è bello indossare. 

 

Tuttavia il gusto della leggenda, che è tipico delle campagne del sud degli Stati Uniti, s’è propagato pure alle grandi città e a discipline come il jazz, che quantomeno dalla metà degli anni Cinquanta s’era decisamente discostato dal melenso stereotipo del musicista campagnolo di vaudeville per trasformarsi in un modello di grande preparazione musicale e, perché no, di impegno politico. È perciò da annoverare nell’alterazione dei fatti (insomma, un’invenzione) ciò che per molto tempo ha aumentato la fama d’un disco fondamentale, e non solo per la musica nera, come “Kind Of Blue” di Miles Davis. S’è infatti parecchie volte raccontato che il trombettista, dopo aver ragionato a lungo sul progetto musicale, nonché sul modo in cui effettuare le registrazioni, si sia recato all’inizio di febbraio del 1959 a casa di Sonny Rollins – in Grand Street a New York City – per spiegargli le idee che sottostavano al nuovo proposito discografico e, visto che i due si conoscevano bene e si stimavano, per ingaggiarlo affinché suonasse le parti di sax tenore. 

 

D’altro canto Miles Davis andava sul sicuro: Sonny Rollins, oltre che essere un meraviglioso solista, aveva avuto delle clamorose intuizioni d’architettura jazzistica. Nel 1957 aveva avuto il coraggio di privarsi dall’accompagnamento del pianoforte, riducendo il proprio gruppo a un ardito trio di batteria, contrabbasso e sax tenore, spogliandosi così dei provvidenzialissimi momenti di ristoro che concedevano gli assolo degli altri strumentisti e attribuendosi ogni più piccola responsabilità sulla riuscita del pezzo. Una scelta da acrobata che, senza rete di protezione, camminava avanti e indietro sulla fune sospesa, ma così abile e audace da produrre nel luglio del 1958 un indiscutibile capolavoro come “Freedom Suite”. 

 

Di fronte all’affascinante richiesta di Miles Davis la leggenda vuole che Rollins abbia risposto più o meno così: “Beh Miles, io ti ringrazio, ma credimi, ho suonato per troppo tempo e adesso musicalmente non capisco più dove accidenti mi trovo. Comunque so per certo di avere dei limiti. Sono davvero sicuro di averli, perciò ora devo ricominciare a studiare e non solo il sassofono, perché tutto deve crescere in armonia: la sfera personale deve svilupparsi insieme alla musica. Così ho deciso di fermarmi un poco. Non so per quanto, ma mi devo fermare. Mi spiace davvero, ma devi trovare qualcun altro che suoni al posto mio”. D’altro canto è universalmente risaputo che le leggende che si rispettino sono costruite in modo tale da essere molto educative e quella della defezione di Sonny Rollins da “Kind Of Blue” è persino educativamente double-face: da una parte c’è l’onestissima ammissione d’un momento di crisi personale d’un autentico “saxophone colossus” e dall’altra c’è il definitivo consacrarsi del musicista che Miles Davis finì per scegliere come principale esecutore delle tracce tenorsassofonistiche del disco: John Coltrane.

 

Comunque, per quanto siano campate in aria, in queste storie aleatorie c’è sempre un fondo di verità e quella che ho appena raccontato, che di tanto in tanto riappare nelle conversazioni degli appassionati di musica, ha soprattutto il compito di annunciare l’anno e mezzo senza dubbio più iconografico della storia del jazz. I diciotto mesi in cui Sonny Rollins, proprio dall’inizio del 1959, preso dalla foga di migliorarsi e impossibilitato a esercitarsi sul sassofono a causa delle proteste dei vicini, suonò per davvero il suo strumento in completa solitudine sulla corsia pedonale del ponte di Williamsburg: il ponte sull’East River che collega il Lower East Side di Manhattan col quartiere di Williamsburg, a Brooklyn. Un’abitudine talmente iconografica da ispirare persino una puntata dei Simpson.

 

“Il ponte era piuttosto vicino a dove abitavo nel Lower East Side e nella passerella pedonale passavano davvero poche persone, perciò potevo esercitarmi tutte le ore che volevo senza disturbare nessuno. Suonavo là da solo in ogni stagione, che fosse estate o inverno, praticamente ogni giorno. Anche molte ore al giorno, talvolta persino quindici o sedici. Credo che fosse l’autunno del 1961 quando mi sono reso conto che non avrei avuto nessuna difficoltà a continuare così: a suonare sul ponte, dimenticandomi di tutto quello che c’era intorno. Ma poi mi sono detto che quella non era una vita reale, che non aveva niente a che fare con la vita di tutti gli altri e che era una specie di ritirata, piuttosto che un tentativo di superare i miei limiti. Così ho ripreso a incidere e a suonare nei club”.

 

Forse a fargli comprendere che esisteva anche il resto del mondo fu il fatto che qualche passante sussurrò a qualcun altro che c’era un tizio nero che tutti i santi giorni suonava sulla passerella sul fiume, così la rivista Metronome pubblicò un articolo intitolato “The Bridge”, in cui si raccontava d’un famoso sassofonista che passava ore e ore a suonare sul ponte di Brooklyn, invece che su quello di Williamsburg, giusto per depistare un pochetto gli appassionati. Tuttavia come dice la canzone: “Una notizia originale non ha bisogno d’alcun giornale, come una freccia dall’arco scocca, vola veloce di bocca in bocca”, e la ricercata solitudine s’infranse con la prima o poi inevitabile intromissione del mondo. Mondo che tuttavia ha reso l’attraversamento sulla passerella pedonale del ponte di Williamsburg, proprio per merito di Sonny Rollins, uno dei must di chi oggi si reca da turista a New York City per motivi che siano anche solo un poco musicali. Alcuni giungono nel “laggiù” di Manhattan persino quando sarebbe meglio evitare certe ore del giorno, ma le inebrianti emozioni jazzistiche inducono ad affrontare il Lower East Side anche in momenti un tantino perigliosi. “È bellissimo stare sopra il ponte e immaginare Newk (uno dei soprannomi di Rollins) che suona tutto solo quando è l’alba oppure dopo il tramonto. Ci sono le luci della città da una parte e dall’altra e sotto ci sono solo i suoni delle sirene e i riflessi dei fanali dei battelli sull’East River”.

 

Ma la questione dell’iconografia del ponte occulta ciò che davvero è il tratto fondamentale della personalità e della musica di Sonny Rollins: la ricerca spasmodica della solitudine. L’aveva già scritto nel 1975 Arrigo Polillo nel suo celebre libro “Jazz. Le vicende e i protagonisti della musica afroamericana”: “Oh, se volesse Sonny Rollins potrebbe essere uno dei grandi leader delle avanguardie jazzistiche, ma non vuole. Non vorrebbe neppure essere un band leader. L’ha ripetuto molte volte. Per essere dei leader occorre, quanto meno, il desiderio di indicare la strada agli altri, di imporsi sui colleghi e Rollins questo non se l’è mai proposto. Non ha neppure avuto alcun proselite, nel senso stretto del termine. Ha suonato sempre e soltanto per se stesso, ed è stato felice soprattutto quando si è trovato solo, con o senza un sassofono fra le labbra”. Sfortunatamente Polillo, che morì nel luglio del 1984, non poté ascoltare il disco che, più di tutti, incarnava le parole che aveva scritto e che, al tempo stesso, forniva la colonna sonora ideale per chi avrebbe così tanto desiderato ascoltare Rollins mentre suonava sul Williamsburg Bridge. 

 

“The Solo Album” venne registrato dal vivo nel maggio del 1985 all’interno del Moma di New York e immortalò più di cinquantacinque minuti di completa solitudine di sassofono tenore, rappresentando sia l’acme musicale di chi s’era innamorato dell’immagine del sassofonista che sparava raffiche di note sporgendosi sull’East River, che una possibile via da percorrere per tutti quei musicisti che, pur suonando strumenti che non potevano sostituire un’orchestra (segnatamente il pianoforte), s’erano stufati della necessaria, ma logorantissima mediazione che consentiva loro di suonare all’interno d’una band. Insomma, una fotografia in bianco e nero di Sonny Rollins era l’indispensabile santino da conservare nella custodia dello strumento di coloro che pensavano (e che pensano) che la musica fosse soprattutto una strada da percorrere in completa solitudine.

 

Comunque sia, alla fine, l’indole piuttosto riservata di Sonny Rollins ha trionfato, quantomeno dal punto di vista dell’essere l’ultimo, e perciò il solo, esponente d’una grande generazione di musicisti. A settembre del 2023 compirà 93 anni  e già da diverso tempo è il testimone conclusivo delle esperienze dei “jazz colossus”. Per vederli quasi tutti è sufficiente accostarsi a una delle fotografie più emblematiche del jazz: “A Great Day in Harlem”. È una foto talmente famosa da essere persino qualificativa, nel senso che è facilissimo trovarne una copia appesa in bella mostra su un muro dei migliori jazz club e se non si riesce a scovarla significa che non si è affatto in uno dei locali più rinomati. La scattò, per conto della rivista Esquire, Art Kane il 12 agosto 1958 ad Harlem (precisamente al 17 della 126esima Strada Est) e ancora oggi immortala inossidabilmente cinquantasette stelle del jazz in posa sulla scala d’ingresso di una brownstone house.

 

Sonny Rollins è su quei gradini. Ha ventotto anni, ha già pubblicato “Freedom Suite”, è vestito di bianco ed è a un passo dalla crisi che lo porterà sul ponte di Williamsburg. È bello osservarlo su quell’immagine e al tempo stesso pensare che, ancora oggi, a quasi sessantacinque anni di distanza, nel salotto della sua casa di Woodstock (proprio quella dei tre giorni di pace, musica e amore) di tanto in tanto soffia nel sassofono. “In realtà lo faccio molto raramente, ma quando succede mi piace farlo in certi caldi pomeriggi di sole. All’aperto”. La replica del giornalista è ovvia: “Proprio come sul ponte?”. Sonny Rollins sorride pacifico e scandisce lentamente: “Sì. Proprio come sul ponte, tantissimi anni fa”.