(foto Ap)

l'artista americano

Novant'anni per Willie Nelson, leggendario cantante country con la passione per la marijuana

Vittorio Bongiorno

 Nonostante i mille acciacchi fisici, continua a sfornare dischi uno più bello dell'altro. Ed è adorato anche nel suo Texas conservatore

La prima cosa che vedo quando metto piede ad Austin, Texas, nel 2017, è la statua di bronzo di Willie Nelson all’incrocio proprio di Willie Nelson Boulevard: bandana, capelli raccolti nelle iconiche treccine da indiano, sguardo sornione verso il cielo, la sua famosa chitarra acustica in braccio. Di solito tali monumenti si dedicano ai morti, ma Willie è vivo, vivissimo, nonostante un enfisema polmonare e mille acciacchi, e attivo con una media di 100 concerti l’anno. Continua a sfornare dischi uno più bello dell’altro, dischi che vanno ben al di là della cosiddetta “country music”, e che si rivolgono a un pubblico che vuole solo ascoltare bella musica e belle storie.

 

Non è un caso che qualche giorno fa il musicista abbia festeggiato il novantesimo compleanno con un doppio concerto il 29 e 30 aprile all’Hollywood Bowl a Los Angeles. La lista dei musicisti ospiti era impressionante, provenienti da ambiti e generi musicali diversissimi: Keith Richards, Neil Young, Kris Kristofferson, Rosanne Cash (la figlia di Johnny), Sheryl Crow, Emmylou Harris, Ziggy Marley, Beck, Margo Price, Norah Jones e tanti altri. Il rapper Snoop Dogg ha cantato con lui l’inno dei fricchettoni “Roll Me Up and Smoke Me When I Die”, in pratica “rollami e fumami quando sarò morto”, e sui social sono comparse foto di molti ospiti nel backstage intenti a fumare grandi quantità di “Willie’s Reserve”, la marijuana che Willie produce nella sua azienda dal 2015, da quando in America in molti stati la sostanza è stata legalizzata. 

 

Da sempre contro le regole, ribelle e anticonformista, insieme a Johnny Cash, Waylon Jennings e altri amici, ha forgiato negli anni 70 il filone musicale “Outlaw”, fuorilegge, vendendo centinaia di migliaia di dischi e facendo incazzare la destra reazionaria. Willie è adorato dal suo pubblico, appartenente soprattutto alla working class. Nel suo amato Texas, stato storicamente e decisamente a destra, i fan gli hanno perdonato persino l’appoggio all’esponente del Partito democratico Beto O’Rourke: nel 2018 l’aveva chiamato sul palco a cantare il classico “On the Road Again” mentre il giovane politico era in corsa contro il senatore repubblicano Ted Cruz. Nell’introduzione alla biografia “The Outlaw” di Graeme Thomson, Keith Richards racconta che, da ragazzo, tutti i 45 giri più interessanti che ascoltava portavano la firma di Willie Nelson. E conclude dicendo che l’amico dovrebbe diventare presidente. “Staremmo tutti molto meglio”. Nella biografia del 2006 Thomson stesso lo definisce uno sciamano: “Ha vissuto una vita piena quanto quella di dieci uomini e la gente da lui vuole grandi risposte. Potrebbe essere un cowboy redneck (un contadino reazionario), un maestro zen o semplicemente un vecchio hippie strafatto. Naturalmente è davvero tutte e tre le cose e molte altre ancora”.


Ha una statua dedicata a Austin. Ma Willie è vivissimo, nonostante mille acciacchi, e attivo con una media di cento concerti l’anno


 

In quel mio primo viaggio in Texas per girare il documentario “Greetings From Austin” al seguito del trio rockabilly di Caltanissetta Don Diego Trio, e nei tanti viaggi successivi nella capitale del Texas, mi sono innamorato irrimediabilmente della città e del suo “presidente”, di quel suo misto di follia e leggerezza, stravaganza e dolcezza, e di quella passione sfrenata per la vita. Praticamente tutti i temi cantati da Willie nelle sue migliaia di canzoni. Non a caso la città ha il suo motto inciso in uno storico murales: “Keep Austin Weird”, mantieni Austin stramba, unica. E Willie Nelson, che di stranezze ne ha tante, rappresenta una sorta di inconscio musicale americano: nei suoi novant’anni sembra che abbia cantato almeno una volta tutte le canzoni del mondo, attingendo alle sorgenti più profonde della canzone popolare di cui si è nutrito fin da bambino.

 

“Willie ha scritto canzoni sulla vera vita della gente comune della classe operaia, come i contadini, il cuore dell’America e del Texas. Austin era ed è tuttora un rifugio sicuro per la gente democratica e progressista che ama la sua musica”, mi racconta oggi il mitico Ted Branson, storico deejay dai lunghi baffoni e il cappello da cowboy di KOOP Radio, una delle emittenti più seguite dalla comunità di Austin. Ci eravamo conosciuti durante le riprese del documentario sul trio rockabilly, nominato miglior band dell’anno proprio in Texas. Ted poi li aveva ospitati per suonare in diretta dai microfoni della sua radio. Praticamente un film nel film. E aggiunge: “Non credo, almeno in base alla mia esperienza, che la maggior parte del pubblico di Willie sia di destra e reazionario, ma per lo più di sinistra e progressista. Un pubblico di liberi pensatori. Invece molti repubblicani, la maggior parte dei quali in Texas, identificano la loro avversione nei confronti di Willie con le sue inclinazioni politiche e il suo lavoro per la legalizzazione della marijuana, dimenticando però il suo impegno a sostegno degli agricoltori americani e per i diritti delle donne: perché ricorda sempre le sue umili origini e le sue radici”. 


Secondo Keith Richards dei Rolling Stones, l’amico dovrebbe diventare presidente: “Staremmo tutti molto meglio”


Nelson nasce il 30 aprile 1933, in piena Grande Depressione, nella minuscola Abbott, Texas, 400 abitanti. Viene affidato ai nonni dopo il divorzio dei genitori, che lo abbandonano quando ha solo sei mesi. Lui e la sorellina Bobbie, di due anni più grande, crescono raccogliendo cotone e ferrando i cavalli, e ascoltando sia gli inni sacri della Chiesa Metodista Unita, sia il western swing di Bob Wills e il jazz di Louis Armstrong e Duke Ellington. Notte dopo notte, Willie ascolta e impara. Nei campi di cotone aveva sentito risuonare il canto mariachi dei messicani e il blues dei neri, che vanno a impastarsi con la matrice country e honky-tonk dei suoi ascolti. Il nonno gli regala la prima chitarra Stella a sette anni e gli insegna La, Re e Sol, “i tre accordi che bisogna conoscere per suonare la musica country”. Il giovane scrive canzoni e forgia metafore, come dice la sorella Bobbie, senza nemmeno saperne il significato. La chitarra diventa parte di sé: tenendola contro il suo petto era come ascoltare il suo cuore. A 19 anni si sposa per la prima volta e ha subito tre figli, campando grazie a mille lavori: disc-jockey, benzinaio, sellaio, venditore porta a porta. Ma la sera va a suonare nei locali da ballo del Texas. Nel 1960 si trasferisce a Nashville, allora come oggi la Mecca dell’industria musicale, e comincia a scrivere canzoni per altri: “Hello Walls” per Faron Young, “Pretty Paper” per Roy Orbison ma soprattutto “Crazy” per Patsy Cline. La canzone ha un successo immediato, anche se sembra tutto fuorché un brano country. Willie ha imparato a memoria la lezione dei suoi miti Hank Williams e Bob Wills, gente che sapeva intrattenere il pubblico con dolcezza, ritmo e ironia, ma si comincia a scontrare con il Nashville Sound, l’industria che sforna prodotti tutti uguali, facilmente incasellabili ed etichettabili. I dischi che pubblica da solista non vanno bene, il suo canto bluesy e anticonvenzionale è in contrasto con lo stile pop del country degli anni Sessanta. Nel 1969 compra una acustica Martin N-20 con corde in nylon, un modello prodotto solo in 262 esemplari e uscito di produzione in fretta: ci applica un pick-up per amplificarla, per riprodurre il suono nasale e irrequieto simile a quello del suo mito Django Reinhardt, il jazzista gitano che suonava solo con due dita. E la chiama Trigger, come il cavallo del cowboy Roy Rogers. Il suo canto si fonde così tanto con la Martin che, a furia di suonarla, graffia il piano in palissandro brasiliano fino a fargli un buco. Le sue cicatrici sono le cicatrici di Willie: “Penso che ci consumeremo più o meno nello stesso periodo”, dice lui, “siamo entrambi piuttosto vecchi, abbiamo qualche cicatrice qua e là, ma riusciamo ancora a produrre un suono di tanto in tanto”. 
Nel dicembre del 1970 la sua fattoria fuori Nashville va a fuoco, Nelson si precipita tra le fiamme per salvare Trigger, e un sacco con un chilo di erba colombiana di cui ha cominciato a essere grande consumatore. Nella sventura interpreta tutto questo come un segno: è il momento di lasciare la città e cercare una strada più personale, libera dalle assurde regole della Music Row. Per cominciare chiude con il whisky e le sigarette (sostituendole con una nuova piacevole routine per l’erba), e comincia a vestire con jeans, scarpe da ginnastica, barba lunga e bandana. Torna nel suo amato Texas, ad Austin, la città anti-establishment per eccellenza, e trova un nuovo suono: più grezzo, sporco, ma più vivo, mescolando il southern-rock, il jazz, lo swing, sempre con al centro la sua chitarra, che lui fa urlare selvaggiamente. Nascono con una grazia speciale i lavori più belli e complessi, come “Yesterday’s Wine” del 1971, “Shotgun Willie” del 1973, e il suo capolavoro, “Red Headed Stranger”, del 1975, un disco sull’amore perduto, sulla vendetta e sulla redenzione. Nel 1978 si allontana dalla sua immagine Outlaw e incide un album di standard pop, subito disco di platino: “Stardust” segna anche il sodalizio con il jazz, cosa che gli spalanca definitivamente le porte di Hollywood. Ed è proprio sul set del film “Stagecoach”, con Johnny Cash e Kris Kristofferson, che conosce la quarta e attuale moglie, Annie D’Angelo, che gli darà due figli, i musicisti Lukas e Micah.

 

Nonostante sia instancabilmente in tour, ogni ritorno al suo Luck Ranch è sempre festeggiato come un evento biblico: su un terreno che si estende per 700 acri (quasi tre chilometri quadrati) pieno di alberi di cedro e ginepro, assieme alla moglie Annie ha rigenerato l’agricoltura, danneggiata dal pascolo eccessivo e dall’erosione, e ha dato riparo a decine di cavalli selvaggi o salvati dai rodei, destinati al macello. E’ in questo ranch che, in piena pandemia, dopo un concerto a Houston davanti a 70 mila persone, viene trasportato d’urgenza perché ammalato di Covid. Il suo sistema respiratorio è da sempre a rischio a causa del fumo (già da bambino fumava corteccia di cedro e vite) e del collasso polmonare del 1981 mentre nuotava alle Hawaii. Ma con i figli ha passato le giornate a giocare a poker, domino e scacchi, e le serate a suonare in salotto le vecchie canzoni di Hank Williams. 


Nei Sessanta a Nashville scrive canzoni per altri, poi fugge da quel suono troppo pop. Suona la sua chitarra Martin fino a bucarla


Cresciuti con un padre così impegnativo, ma anche inesauribile fonte di creatività, Lukas e Micah sono diventati due talentuosi chitarristi. Oltre a suonare con lui dal vivo, suonano anche nella band live di Neil Young. Lukas, che ha una voce identica al padre, ha raccontato che Bob Dylan lo voleva nella sua band quando aveva 16 anni, ma che Willie ha rifiutato l’offerta – senza dirlo al figlio – perché finisse prima il liceo. Micah, verso la fine del concerto per i 90 anni del padre, ha cantato la sua canzone “Die When I’m High (Halfway to Heaven)”, “Se muoio quando sono fatto, sarò a metà strada per il paradiso”, che è nata da una frase che Willie gli aveva realmente detto una sera dopo aver fumato troppa della sua erba magica.


Continua a giocare con il tema della morte: ma mentre il suo amico Johnny Cash trasudava cupezza gotica, lui canta leggiadro e soave 


Nonostante le malattie e l’età Willie continua a giocare con il tema della morte: ma mentre il suo amico Johnny Cash, soprattutto nella parte finale della carriera, trasudava cupezza gotica, lui canta leggiadro e soave “con la voce di un uomo che ha guardato nell’abisso e che è tornato indietro snocciolando battute”, come ha scritto Jody Rosen sul New York Times. Come nella strofa iniziale di “Heaven Is Closed”, tratta dal disco “Last Man Standing” del 2018: “Il paradiso è chiuso e l’inferno è sovraffollato, quindi penso che resterò dove sono”. E così, dopo il concertone, tornato a casa, continua imperterrito a incidere canzoni e aspettare un nuovo concerto. Perché forse è l’unica verità che può raccontare: ogni giorno è un nuovo inizio, per lui e per tutti noi. In un altro brano “Something You Get Through” canta “La vita va avanti e avanti, e quando non c’è più, vive in qualcuno di nuovo”. Buon compleanno Willie.

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