(foto Francesco Prandoni)

facce dispari

Dario Brunori: "Una risata mi seppellirà"

Francesco Palmieri

La ripartenza della musica, l'autodissing per esorcizzare il contronto con i mostri sacri della tradizione italiana. E il bisogno di una sana leggerezza: "Mi sarebbe piaciuto piacere a Massimo Troisi". Intervista al cantautore calabrese

È l’ironia, ha ragione James Hillman, che fa la differenza tra un sano e un pazzo. O tra un predicatore e un cantautore che racconta cose serie ma senza la pretesa di insegnare. Brunori Sas alias Dario Brunori da Cosenza, 44 anni di cui parecchi ormai sull’onda del successo, sembra capitato per caso in un ambiente dove fare il personaggio si confonde con esserlo. Non sapendo come appaiarlo, perché è un artista dispari, quelli che se n’intendono osano paragoni che lui accetta e smentisce e si schermisce in un recente brano, ‘Ode al cantautore’, citando grandi nomi dei quali si dichiara “un surrogato/prodotto dal mercato/che vive solamente di cliché”. A domanda risponde che questa intervista la titolerebbe: “Una risata mi seppellirà”.

 

Intanto avrà sorriso per la ripresa dei concerti dopo la pandemia. Ha appena finito un tour e il 21 giugno da Cosenza ne comincia un altro fino al 28 agosto. Come sta il pubblico?

Serpeggiava la paura che si fosse disabituato ai concerti. Mi pesava ancora la sospensione del tour che avrei dovuto cominciare il 29 febbraio 2020: fu come quando ti fanno scendere dall’aereo pronto al decollo. Invece ho ritrovato gente che aveva voglia di stare assieme e di esorcizzare il passato.

 

Come se niente fosse stato?

Guai se andasse così. È normale che ora ci sia euforia: è come uscire da una guerra. Ma dal periodo vissuto dobbiamo trarre riflessioni importanti, una rimozione mi preoccuperebbe. Non ho ancora metabolizzato l’accaduto ma potrei trasfonderlo in un nuovo disco: perché è successo? Un certo modo di concepire il benessere era sbagliato? Il nostro treno deve rallentare la corsa? Possiamo misurare la felicità con il prodotto interno lordo? Non ho risposte ideologiche ma domande che rivolgo a me stesso e a chi, come me, ha un certo modo di sentire prima che di pensare.

 

Al periodo delle ideologie è seguito quello in cui tanti, come dice nella canzone ‘Al di là dell’amore’, “sono convinti che basti un tutorial per costruire un’astronave”.

È un atteggiamento addirittura antropologico, sorto dalle immense possibilità offerte dalla rete illudendo tutti che possano far tutto, dalle diagnosi mediche alla politica. Con un impatto devastante. In quel brano cerco un superamento di quest’approccio e di non replicarne i difetti.

 

Qual è il maggiore?

La mancanza di una sana leggerezza che aiuti il confronto senza sminuirlo e favorisca il dibattito piuttosto che le fazioni, perché un contrasto non si risolve schiacciando gli altri. Si può parlare di argomenti importanti senza il coltello tra i denti.

 

Talvolta però con spietatezza. Ne ‘I figli della borghesia’ fa la critica alla sua generazione: “Maleducati, mal abituati/Inadeguati al vivere moderno/Sempre incazzati con il Padre Eterno/E siamo liberi di fare/Tutto quello che ci pare/Anche se quello che ci pare in fondo/Nessuno sa cos’è…”

È un pezzo che racconta la mia personale formazione per spiegare una certa sofferenza nel presente. Ho voluto misurarmi con luoghi e ambienti in cui mi sono trovato io per primo, usando dettagli che sono sempre più efficaci dell’astrattezza: “i tappeti persiani ficcati sotto i divani”, “la vetrinetta con l’argenteria”, “una racchetta di Panatta”.

 

Nell’’Ode al cantautore’ si prende in giro richiamando De André, De Gregori, Dalla e definendo se stesso “un surrogato”.

Un ‘autodissing’ per esorcizzare la paura di cominciare a prendermi troppo sul serio. Per me comporre è sempre stato un gioco, così ho voluto mettere in ridicolo gli stereotipi associati a un certo tipo di attività. Come nei concerti: suono una parte molto rock con la chitarra elettrica poi dico: “Non vi preoccupate, è una crisi di mezz’età musicale”.

 

L’attitudine all’ironia.

Quando me n’andrò, metterò le gran belle risate tra le cose più importanti fatte nella vita. Se mi chiede per chi vorrei cantare rispondo: Massimo Troisi. Mi sarebbe piaciuto piacere a lui. Le cose serie non devono lasciar fuori il sorriso e viceversa. Troisi fu un maestro.

 

Altri maestri?

Tanti da non poterli enumerare. Se c’è una cosa che mi spiace della contemporaneità è la desacralizzazione della figura del maestro. La difficoltà di accettarne.

 

È contento quando la assimilano a Battiato?

Non so se lo sarebbe stato lui. Riconosco un trait d’union con alcuni cantautori del passato per cui provo un affetto che mi spinge, anche mantenendo il mio profilo, a mantenerli vivi presso le nuove generazioni che forse non li conoscono se non tramite me. Adesso c’è talmente tanta roba che questo presente sembra eterno e il passato inutile, non si ha tempo di recuperarlo. Invece è un’opera nobile. Anche i cantautori di prima avevano riferimenti anteriori. Non c’è artista che non ne abbia.

  

Cos’è scrivere una canzone?

Parlare con sé. Anche quando ci metto un “tu” quel “tu” sono io. Molte cose le canto a me stesso, non sempre col risultato di ottenere un cambiamento di vita, ma come promemoria. Le canzoni sono attimi di lucidità, l’invito a non rinunciare alla vitalità, a non restare bloccato in una condizione. È preferibile la sofferenza alla freddezza.

 

Nasce prima il testo o la musica?

Il mio approccio è più strumentale ma non ho una regola. Un brano può nascere da un appunto vocale sullo smartphone o suonando uno strumento che mi suscita qualche stato d’animo.

 

Ma lei non ha nemmeno un tatuaggio?

No.

 

Vuol fare il trasgressivo?

Ha ragione. Venendo da una famiglia che lavora nel settore del mattone, prima o poi mi tatuerò un foratino.

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