Facce dispari

Alessandra Cagnazzo, l'avvocato che non veste il rosa

Francesco Palmieri

Avvocatessa? "No, non sento il bisogno di rivendicare, nel mio titolo, il fatto di essere donna. Lo squilibrio di genere sul lavoro è evidente, ma trovo umiliante cercare per le donne una corsia preferenziale basata sul sesso", dice la giurista 

“Finalmente una donna” è il titolo che lei, esperta di diritto di famiglia e autrice di numerose monografie giuridiche, non vorrebbe mai vedere su un giornale in occasione di un successo femminile politico o professionale. Alessandra Cagnazzo, avvocato, originaria del Salento, lavora tra Roma e Milano, per hobby dipinge ma precisa che la sua vera passione è il suo stesso lavoro, esercitato da più di vent’anni.

Secondo la Treccani il sostantivo maschile ‘avvocato’ dispone di due forme femminili: ‘avvocata’ e ‘avvocatessa’. Come vuol essere chiamata?

Avvocato con la ‘o’, perché nasce come una professione maschile. Poi grazie al cielo anche noi siamo riuscite a esercitarla, ma non sento il bisogno di rivendicare, nel mio titolo, il fatto di essere donna. Non è rilevante. Inoltre avvocato mi suona anche meglio.

Il diritto di famiglia è l’avamposto per valutare la parità di genere in una società. La sua esperienza cosa rileva?

Per eliminare la disparità di genere bisogna sviluppare la cultura del rispetto fra i sessi. E l’equilibrio tra i genitori è il migliore insegnamento che possiamo dare ai figli che guideranno la società domani. Non “un domani”, ma tra poco tempo. Se manca il primo esempio dentro le famiglie è inutile promuovere convegni o parlarne in tv. Abbiamo l’immensa responsabilità di dare ai figli uno spettacolo decente, ma spesso accade il contrario.

Quanto è ancora maschilista il mondo del lavoro?

Lo squilibrio resta evidente, però trovo umiliante cercare per le donne una corsia preferenziale basata sul sesso. Non fa che rimarcarne l’inferiorità. Le quote rosa sono una forma di profonda umiliazione: non vorrei mai vincere per questa motivazione una sfida elettorale o un concorso. Voglio arrivare dove arrivo perché sono brava.

Ha seguito il processo che ha opposto Johnny Depp all’ex moglie Amber Heard?

Quel verdetto non rappresenta una sconfitta per le donne, come ha detto l’attrice. La giustizia non ha sesso e da giurista devo pensare che la decisione sia stata suffragata da motivazioni fondate. Mi occupo ogni giorno di violenze domestiche ed esorto chi ne è vittima a denunciare sempre e a fidarsi della giustizia. I numeri dei femminicidi dimostrano che la donna, in quanto più debole nel fisico, continua a essere più vulnerabile. Però denunciare non basta, bisogna provare. Tornando a quel processo non mi è piaciuto, per la spettacolarizzazione sia dei protagonisti sia delle figure professionali che vi hanno partecipato. Quanto avviene davanti alle telecamere subisce troppe contaminazioni.

 

Qual è la causa principale delle crisi di coppia rispetto agli inizi della sua attività di avvocato?

Ci sono sempre relazioni che finiscono perché il tempo ne ha consumato i sentimenti. Purtroppo assisto al bisogno assai diffuso di addossare all’altro la responsabilità o, come si diceva una volta, “la colpa”. Cerco di evitare gli esiti drammatici componendo il conflitto con soluzioni consensuali. Ad andare in tribunale ci vuol niente. Ma è ancor più doloroso.

Le unioni sono diventate più fragili?

Qualcuno dice che i social network abbiano moltiplicato le occasioni di incontri e tradimenti anche per l’immediatezza degli scambi. Continuo a ritenere che questa non sia la causa, ma già la conseguenza di una crisi. Al contempo è vero che c’è meno disponibilità a legarsi, e che si preferiscono relazioni veloci o non troppo profonde. Si fanno meno figli anche per questa ragione, perché i figli impegnano per sempre. Credo si sia meno propensi ad assumersi la responsabilità di rapporti basati su una condivisione vera: non ci si sente all’altezza. Molti preferiscono godersi la vita temendo che una relazione importante sia la fine di tutto, mentre è proprio il contrario. È l’inizio di tutto.

È un progresso portare anche il cognome materno?

È la naturale evoluzione della nuova impostazione dei rapporti familiari ispirati al principio della bigenitorialità, che mettono al centro il diritto del figlio di godere della presenza equilibrata e costante di entrambi i genitori. Non è una vittoria delle madri sui padri, come stupidamente qualcuna l’ha definita. È piuttosto la consacrazione del diritto del minore a riconoscersi nel proprio cognome, che interessa l’identità e racconta la storia personale di ciascuno.  Mi auguro che il legislatore regolamenti la materia in tempi umani.

Qual è la soddisfazione maggiore per un avvocato che opera nel suo campo?

Con la riforma della filiazione c’è stato un grande cambiamento. I figli partecipano alle decisioni della famiglia, non si parla più di potestà ma di responsabilità genitoriale. Da curatore speciale dei minori, cioè da loro difensore, il risultato più bello è quando si risolve un caso che li coinvolge: per esempio l’adozione di un bambino che stava in casa-famiglia perché vittima delle violenze o delle dipendenze dei genitori. Ci sono piccoli maltrattati che hanno problemi di salute e un’incapacità di vivere ma finalmente, integrati in un’altra famiglia, possono rifiorire. Quando mi mandano le foto con gli auguri di Natale so di avere conseguito il mio successo.

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