L'intervista

Così non schwa proprio. Parola di linguista

Mattia Giusto Zanon

Il cosiddetto “linguaggio inclusivo” è diventato un sentiero lastricato di buone intenzioni su cui molto spesso ci si perde, si inciampa, rischiando di forzare le cose. Contro l’accettazione passiva qualcuno prova a problematizzare la questione. È il caso di Andrea De Benedetti e del suo nuovo libro per Einaudi

Seducente, più o meno trasversale, sicuramente aspra nei toni da sembrare a volte una crociata. È la discussione intorno al cosiddetto “linguaggio inclusivo”, che nonostante spesso parta da buone intenzioni, ha il brutto vizio di essersi radicalizzata, trasformata in atteggiamento moralmente ricattatorio ed elitista che non lascia spazio a un vero dibattito. Almeno fino ad ora, fino alla pubblicazione di Così non schwa, dell’autore e linguista Andrea De Benedetti, che prova a sistematizzare la questione, offrendo una lettura diversa.

 

Perché da noi le “prescrizioni linguistiche” vengono sempre viste con sospetto? Beh, perché vanno trattate con sospetto, dal momento che sono sempre in qualche modo un esercizio di potere. Le persone i codici linguistici li subiscono. Ogni idea di creare una grammatica parallela a quella esistente rientra in un esercizio di potere calato dall’alto. Noi nello specifico paghiamo anche i ricordi del nostro passato recente, come il Ventennio, quando non ci si poteva sognare ad esempio di usare i forestierismi. Tendiamo sempre quindi a percepirle come imposizioni, sia che vengano da un governo autoritario, che da una “bolla intellettuale”.

 

Lei parla delle lingue come di “organismi vitali”, perché non vi si possono imporre troppe regole? Perché vige il cosiddetto “principio di economia”, quella tendenza che possiamo ritrovare ad esempio nei dialetti, se ci pensiamo, nel loro limare, semplificare il parlato fino a ottenere la modalità più pratica per esprimere uno stesso concetto.

 

Riguardo alle “bolle progressiste dei social”: chiunque si faccia due passi per strada, al bar o al supermercato comprende che un certo tipo di discussioni che spopolano in rete non esistono nella vita reale, perché? Perché è un discorso che ci riguarda, ma fino a un certo punto. Sia chiaro, io credo che la lingua sia una delle forme di democrazia più compiute. È che ci è venuta così bene proprio perché non l’abbiamo pianificata a tavolino. Tutti quanti, per il solo fatto di parlare, di scrivere abbiamo iniziato a migliorarla. Ma il nostro non è un “progetto linguistico” coerente, è il caso, è la vita, sono le situazioni.

 

Il linguaggio inclusivo è un’idea seducente. Tuttavia il cuore del problema sembra stare quasi sempre altrove… È perché i significati sono più importanti dei significanti. Credo che sia illusorio o demagogico poter prospettare l’idea di attuare un vero cambiamento, di dare più rappresentanza tramite un’imposizione linguistica. Si può lavorare sulle relazioni, sui diritti, ma un sistema lessicale come quello italiano non permette di trovare una serie di regole per “offrire più rappresentanza”.

 

Perché la famigerata “vocale intermedia” non è una grande soluzione? A volte, senza complicarsi troppo la vita, ci sarebbero anche soluzioni più semplici già a portata di mano. Ricordo di aver letto di una procedura concorsuale per l’abilitazione a “professorə” universitario. Sarebbe bastato usare la forma docente, che è di genere comune, ma figurarsi. Ma si potrebbero fare anche molti altri esempi. Il maschile sovraesteso rimane tutt’ora una delle poche soluzioni per non discriminare. Non si tratta di essere cinici, ma realisti, di fronte a un’analisi costi-benefici dello schwa, che riguarda l’intera comunità dei parlanti, mi sembra che i costi siano infinitamente superiori rispetto agli eventuali benefici. E se la lingua deve andare avanti, anche il voler riesumare un “genere neutro” – imponendolo nel parlato – va invece indietro di duemila anni.

 

Quindi la lingua in definitiva che cos’è? Un sintomo, una conseguenza? Io sono convinto che la lingua sia anche uno strumento potente che cambia le cose. È che è uno strumento infinitamente più complesso delle componenti che ne costituiscono l’ossatura. È fatta di contesti, di relazioni, di necessità e ogni discorso sulle parole da usare o non usare non può prescindere da questi aspetti. Molto del cosiddetto “Pol.corr.” invece finisce per trasmettere un messaggio che è: “iniziamo dal lessico e poi tutto il resto verrà”. E invece no. Bisogna iniziare da altro, risolvere le diseguaglianze, e poi il lessico verrà di seguito. A me pare che in un certo campo sia difficile discutere di certe cose. Non è tanto che non si può dire niente, è che non si può dire che non si possono dire certe cose.