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retoriche dell'intransigenza

Il pamphlet di Andrea De Benedetti, in caso di febbre reazionaria indotta da schwa

Guido Vitiello

Il linguista tutt'altro che reazionario ha scritto "Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo". Senza cadere nella retorica del tramonto dell'occidente, spiega come in cambio di benefici limitati e congetturali, alcune proposte "inclusive" renderebbero meno agevole lo spazio condiviso della lingua

Vi siete mai fatti il tampone di Hirschman? Non lo trovate in farmacia, ma in libreria. Quando avvertite i primi sintomi di febbre reazionaria, ossia quando la benintenzionata battaglia di un’avanguardia intellettuale o politica vi suscita un oscuro malore nel basso addome, una reazione allergica cutanea o addirittura una violenta crisi di rigetto, procuratevi una copia del piccolo classico dell’economista e storico delle idee Albert O. Hirschman, “Retoriche dell’intransigenza”, e cercate di farvi da soli la vostra diagnosi. Possibilmente, non infilatelo nel naso (dovrebbe essere ovvio, ma non si sa mai: sul bugiardino della quarta di copertina non c’è scritto niente al riguardo). I possibili esiti del test sono tre, come tre sono le retoriche prevalenti del pensiero conservatore e reazionario degli ultimi due secoli che Hirschman distingue. Se pensate che la battaglia che vi è antipatica sia tutta facciata, e che nella sostanza delle cose non cambierà nulla, siete affetti dalla retorica della futilità; se credete che manderà in rovina l’occidente, la civiltà, la cristianità o qualche altra conquista che vi sta specialmente a cuore, vi ha contagiato la retorica della messa a repentaglio; se sospettate infine che gli effetti saranno ben diversi da quelli sperati dai promotori, o addirittura controproducenti, il tampone di Hirschman vi darà il terzo risultato: il vostro sintomo nasce dalla retorica della perversità. 

 

A rigore, una volta che lo abbiamo liberato dall’impaccio dei suoi riferimenti storici contingenti, non c’è motivo di lasciare il trivio di Hirschman alle forze oscure della reazione: lo schema può descrivere più in generale le reazioni (al plurale) di fronte ai cambiamenti, quale che sia l’estrazione ideologica del paziente. Prendiamo il caso del famigerato schwa, il simbolo fonetico che alcuni propongono di introdurre per superare il binarismo linguistico e sostituire il maschile sovraesteso. I retori della messa a repentaglio proclameranno che è in gioco il destino della lingua italiana, e vergheranno appelli un po’ sovreccitati e melodrammatici per avvisarci del pericolo mortale; gli adepti della futilità vi diranno invece che una piccola e rovesciata non ha il potere di cambiare un ette, perché al di sotto della superficie linguistica i rapporti di potere nelle nostre società rimarranno perfettamente inalterati. Il pamphlet del linguista tutt’altro che reazionario Andrea De Benedetti, “Così non schwa. Limiti ed eccessi del linguaggio inclusivo”, appena pubblicato da Einaudi, non cade mai nella prima retorica (De Benedetti confessa anzi di essersi pentito per avere sottoscritto impulsivamente l’appello di Massimo Arcangeli, “Pro lingua nostra”, che tirava l’allarme per la “pericolosa deriva”) e solo occasionalmente scantona nella seconda. Al cuore del suo ragionamento sta l’idea degli effetti indesiderati, o se vogliamo la terza via della perversità: in cambio di benefici limitatissimi e tutti congetturali, alcune proposte del linguaggio inclusivo, se fossero recepite, renderebbero meno agevole per tutti i parlanti lo spazio condiviso della lingua, e questo è un effetto collaterale decisamente sproporzionato. De Benedetti sceglie una metafora giuridica: va bene proporre modifiche alle regole sedimentate dall’uso e dal gusto, ossia la legislazione ordinaria di una lingua; più rischioso è manomettere le regole da cui dipende l’intero ordinamento grammaticale, che equivalgono grosso modo al patto costituzionale. Difendere quei confini, aggiunge, “non significa dunque cercare di preservare ‘il passato’ e un’idea prescrittiva di lingua; significa invece tutelare uno spazio comune, un luogo in cui tutti gli italofoni, compresi quelli che non lo sono dalla nascita, possono sentirsi a casa”.

  

E’ pretestuoso, ancorché comodo e ricattatorio, ritrarre la contesa in corso come il semplice scontro tra i generosi paladini dell’inclusione e gli anziani patriarchi arroccati nel fortino dei loro privilegi linguistici; si tratta invece, in molti casi, dell’alternativa tra due idee di inclusione. La prima (tradizionalmente universalistica, e se piace riformista) dice: facciamo i lavori necessari perché tutti possano vivere a proprio agio nella casa comune. La seconda (identitaria e socialgiustiziera) ribatte: la casa l’avete progettata per escluderci, dobbiamo perciò ridisegnarne la pianta e ristrutturarla dalle fondamenta, anche a costo di starci tutti scomodi e di andare a incocciare ogni tre passi contro un pilone; fiat iustitia et pereat mundus.

  

Il problema della seconda via, che come tutte le vie così radicali pecca di abuso costruttivistico della ragione, è che avrà il probabile effetto inintenzionale di metterti gli altri inquilini contro. Alla successiva assemblea di condominio anche i più miti, irritati dal progetto dei piloni, saranno mal disposti verso le tue richieste ragionevoli, e ti guarderanno storto perfino se proporrai di riparare il buco nel tetto che ti inonda casa a ogni nuovo acquazzone. Gli inquilini più maligni – che so, il pensionato del terzo piano che passa il tempo libero facendo causa a tutti – saranno deliziati di poter usare la tua battaglia più impopolare per metterti in ridicolo e ghettizzarti ancora di più. E a te, inquilino emarginato, di un progetto così ambizioso non resterà che lo shibboleth di un grafema, da sfoggiare come segno di appartenenza al club esclusivo degli inclusivi. E’ un’alternativa, quella tra le due vie all’inclusione, che si pone pressoché in tutti gli ambiti delle guerre culturali di questi anni, e che richiederebbe di volta in volta quella che De Benedetti chiama un’analisi costi-benefici, come si fa per tutte le grandi opere. “Weighing tradeoffs is not bigotry”, ha detto un vecchio liberal come Bill Maher nel suo ultimo monologo sui minorenni transgender avviati precocemente alla transizione medica; e per aver suggerito che sarebbe prudente soppesare rischi e costi, gli stanno dando da giorni del bigot

  

Non credo che accadrà lo stesso a De Benedetti, che ha fatto l’impossibile per congegnare il suo libro in modo che non si presti facilmente all’uso come corpo contundente in una lite condominiale. Prevedo purtroppo un altro esito, prodotto da riflessi condizionati a catena: la stampa della destra più arrabbiata (il pensionato attaccabrighe del terzo piano) si avventerà sul pamphlet in cerca di spigoli per punzecchiare gli schwaisti, facendosi scudo del pedigree progressista dell’autore e dell’editore; nella sinistra identitaria, a quel punto, scatterà il riflesso pavloviano del “non fare il gioco della destra”, e più che attaccare il libro si cercherà per quanto possibile di ignorarlo cordialmente, tutt’al più lanciando all’autore una delle accuse più stupide e inquisitorie delle guerre tribali di questi anni, quella di fare dog-whistling per blandire segretamente i reazionari. Così, un’altra occasione andrà perduta. Temo, lo avrete intuito, che non ci sia molto da fare, ma non lo temo al punto di non sperare di essere smentito dai fatti. Del resto, ammoniva Hirschman, la principale debolezza della retorica della futilità è che sottovaluta i propri effetti sulla realtà: a forza di ripetere che gli sforzi sono inutili, rischia di renderli tali, e di trasformarsi in una profezia che si autoavvera. Questo mio piccolo articolo, al contrario, è una profezia che implora di essere falsificata.