Philip Guston/Riding around-1969 

Asterischi e irritabilità. Intervista alla filosofa Svenja Flasspöhler

Ginevra Leganza

"In una società veramente libera l’opera dev’essere come un fiume che scorre e non si preoccupa di turbare o non turbare i fruitori”. Dall’arte all’amore la libertà di parola è tormentata

MeToo, asterischi, cancel culture, schwa. “Sa qual è la questione?”, prego, mi dica. “E’ dove debba essere fissato il limite della ragionevolezza”, dice al Foglio Svenja Flasspöhler, la pensatrice di Münster che nel 2018 – MeToo albeggiante – pubblicava un best seller intitolato Die potente Frau, La donna potente, ovvero la donna che è tutto il contrario dei salici piangenti del movimento. Un elogio del raziocinio. Ma la ragione costa cara e il prezzo da pagare fu lo scontro con Anne Wizorek, che al tempo del proto MeToo suggeriva alle femministe-censori di segnalare tutti i maschiacci-recensori del suo libro su Amazon. Anni dopo le due si azzuffarono in televisione a proposito del limite opaco fra seduzione e molestia. L’una scioccò l’altra battendo il passo sul punto del buonsenso. Perché provarci è lecito, rispondere è cortesia, e dire di no è sempre e comunque possibile. 

 

Flasspöhler torna oggi con un saggio sul nostro sensibilissimo presente: Sensibel. Über moderne Empfindlichkeit und die Grenzen des Zumutbaren. Ma allora è la sensibilità senza limiti a imporsi come criterio del nostro agire? “Se poniamo la sensibilità degli individui o dei gruppi alla base della condotta in società, quest’ultima deve muoversi come un elefante in una cristalleria. Così facendo mette in pericolo la libertà stessa, perché legittimità e illegittimità dei comportamenti non sono negoziate discorsivamente, ma dipendono dalle solfe del ‘questo mi ferisce’ e del ‘quello mi offende’. Lo vediamo spessissimo nel mondo dell’arte”. Un’arte sempre più attenta a non ferire. “In una società veramente libera l’opera dev’essere come un fiume che scorre e non si preoccupa di turbare o non turbare i fruitori”. Invece se ne preoccupa eccome. “Certo. Penso a Chuck Close o a Bruce Weber. Le mostre di tutti questi uomini accusati di molestie sessuali sono state cancellate. E lo stesso rischio incombe sulle esposizioni che spiacciono ad alcuni gruppi sociali”. Per esempio? “Pensi alla mostra itinerante di Philip Guston, con i cappelli del Ku Klux Klan che hanno causato critiche perché potevano ferire o essere male interpretati”. Siamo all’imperativo categorico del ‘sii sensibile!’. “Ma la sensibilità come legge universale porta l’essere umano a trasformarsi in una ferita ambulante che dev’essere protetta da qualsiasi rischio di infezione”. 

 

Dall’arte all’amore, la libertà di parola si scontra spesso con quella sessuale. “Partiamo col dire che la pluralità è sempre la benvenuta. Non ci sono due generi ma molti gruppi in lotta per un giusto riconoscimento. Eppure queste lotte sono controverse. Theodor Adorno e Judith Butler promettevano una libertà che spezzasse le catene dell’identità. Invece la politica linguistica oggi codifica e ingabbia l’identità sessuale”. Siamo all’Lgbt+, verso l’infinita tastiera e oltre. “Abbreviazioni come Lgbtqia* dovrebbero essere espanse all’infinito. L’asterisco sta per tutti i gruppi che non ricevono la propria lettera. Ma perché non la ricevono? Perché il linguaggio è sempre mancante. Una semplice intuizione che dovrebbe affrancarci dalle ossessioni politico-linguistiche”. 
Nel suo libro scrive del maschio contemporaneo, sempre più delicato, sempre meno vir. “Il maschio occidentale è in crisi rispetto alla rigida dicotomia, già messa a fuoco da Rousseau, secondo la quale la donna sarebbe empatica e calda e l’uomo duro e competitivo. E’ chiaro che questi schemi sono superati”. Non si faccia dire che è troppo fredda, troppo tedesca. L’empatia sarà pure una parola del pensiero facile, ma non sempre è un male. “Affatto. Dico solo che è la dose che fa il veleno”. 


Ci sono dei filosofi che dovremmo leggere oggi per ritrovare un senso di moderazione? “Direi Sigmund Freud. Dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, il filosofo scrisse di un atteggiamento culturale sbagliato nei confronti della morte, esortando a restituire a quest’ultima il posto che merita nella realtà”. Un posto che abbiamo perso di vista? “Be’ il rapporto con la morte è stato eccessivamente sensibilizzato nel corso del tempo. La pandemia ha dimostrato quanto la morte ci sconvolga. Pensiamo alle foto di Bergamo”. Il fatto che la morte ci sconvolga non è un segno del processo di civiltà? “Certo. Non mi fraintenda. E’ un segno del progresso che la protezione della vita abbia la priorità. Ed è una benedizione che ora abbiamo i vaccini. Al tempo stesso, però, perdiamo la capacità di capire che non sempre la morte può essere prevenuta. A un certo punto diventa inevitabile per tutti”. Dice che non sappiamo morire? “Dico che dobbiamo dare al Nulla un posto nella nostra vita. E quindi anche ai sentimenti negativi. Gli ipersensibili, appunto, non sono in grado di riconoscere la negatività. Ma riconoscerla è l’unico modo per capire cosa significhi vivere. Essere e non essere sono inscindibili. Filosofare significa imparare a morire, ha detto Montaigne. Una frase che dovrebbe farci riflettere anche oggi”.
 

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