Facce dispari

Tony Esposito, l'arte di conciliare Bizet con l'hip hop

Francesco Palmieri

Figlio di don Luigi, è uno dei maggiori percussionisti internazionali, cantautore, sperimentatore di generi musicali, autore di una ventina di album. L'inizio in barberia e il sodalizio con Pino Daniele

Quando verrà scritta l’Enciclopedia Barbieri & Musica, nella sua ingente mole dovrà includere all’indice dei nomi anche quello di Esposito Luigi, bottega nella napoletana via Manzoni, la strada che come un cornicione di pastiera sovrasta e unisce il Vomero e Posillipo. Perché grazie a un chitarrista, che con gli arpeggi copriva il ticchettio delle forbici, il figlio di don Luigi si prese di passione per la musica. Come prima di lui Giovanni Ermete Gaeta, passato alla fama col nome d’arte di E. A. Mario, che fu acceso di passione dal mandolino lasciato da un cliente nel salone del padre. Le barberie furono alternativa povera e diffusa ai Conservatori; rifugio odoroso di Floïd per tradizioni suscettibili di scomparsa come il canto a posteggia, di cui Roberto De Simone scovò un estremo epigono in Alfredo Napoletano, già figaro di Eduardo De Filippo con bottega sulla triste e vasta via Foria, che immortalò la voce nel cd ‘Ammore busciardo’ del 2016.

Tony Esposito, figlio di don Luigi, è uno dei maggiori percussionisti internazionali, cantautore, sperimentatore di generi musicali, autore di una ventina di album.

 

Qualcuno la include nella casella ‘World Music’. Non le pare riduttiva?

Sì, è stata un’etichetta di moda ma la trovo vaga. Preferisco dire, con David Byrne dei Talking Heads, che lo stile deve essere solo una sollecitazione rispetto alle musiche. Salvo chi, come un David King per il blues, può fare solo un genere perché ci s’identifica pienamente, ogni artista resta libero di esplorare ovunque: un giorno la musica classica, l’indomani la dodecafonica. Dipende dalla nostra fantasia, dal nostro tocco.

 

Il 31 maggio prossimo lei ne offre prova con il concerto ‘Tribal classic’ promosso dal Teatro Trianon nella piazza antistante, cuore di Forcella. Musica classica riletta con la ritmica.

È l’anteprima nazionale di un’operazione costruita negli anni, già con l’album ‘Tam Tam Brass’ che realizzai assieme all’ensemble di ottoni dell’orchestra di Santa Cecilia e alla prima tromba Andrea Lucchi. Attualizzare la musica classica per renderla accettabile anche dai giovanissimi. Non cambio nulla dei brani, ma mi prendo la libertà di reinventarne il ritmo.

 

Per esempio?

L’Orfeo di Monteverdi come una tammurriata. O la Carmen di Bizet che sembra un pezzo hip hop. Non è dissacrazione demagogica, ma un viaggio conciliatore tra la cultura europea e la contemporaneità, testimoniato dalla produzione con la Sony Classical, che mi riempie di orgoglio quale artista pop.

 

Perché il ricorso agli ottoni?

Ho voluto riunire gli elementi della terra: i metalli con il legno e la pelle delle percussioni. Niente elettronica, ma suoni che si possano riprodurre anche quando va via la corrente. Siamo troppo legati all’elettricità, che a differenza della natura non è permanente. Se ci fosse un grande blackout la musica sarebbe ancora possibile con gli strumenti tradizionali. O immaginiamola nel tempo: se fra qualche centinaio d’anni qualcuno ritrovasse una chitarra acustica intatta tra le macerie potrebbe suonarla. Se trovasse un pc difficilmente sarebbe in grado di riavviarlo.

 

Eppure l’elettronica frequenta spesso il repertorio classico.

Fra i musicisti più copiati negli assoli di chitarra elettrica ci sono stati Rossini e Puccini, per non parlare del pop sinfonico degli anni ottanta. È quel che ho voluto evitare. Una fuga di Bach è talmente bella che a trasferirla su un reggae sembra scritta oggi, ma la scommessa è rispettarne la struttura compositiva.

 

Cosa significano le radici musicali?

Sono più profonde delle lingue: nella mia produzione ho usato a seconda dei casi il napoletano, l’inglese, il francese, i dialetti africani. Ma adoro la musica strumentale perché supera le barriere linguistiche, anche se riconosco al mondo dei classici napoletani un’eleganza straordinaria. Con il gruppo Musicanova di Eugenio Bennato mi sono immerso nella ricerca per anni e vedo la continuità tra una villanella cinquecentesca e ‘Lazzari felici’ di Pino Daniele.

 

Con chi si è divertito di più?

Agli inizi con la psichedelia di Alan Sorrenti, poi con i fratelli Bennato, ma il mio più grande amore collaborativo, durato oltre trent’anni, è stato con Pino Daniele, felice di avere assistito all’ascesa di un’artista così grande.

 

Cominciò tutto nella bottega di suo padre?

Era vicina alla fermata della funicolare che scende a Mergellina e un chitarrista ci allietava tutti i giorni. Più tardi ho scoperto la tradizione musicale dei barbieri anche in Puglia, in Sicilia. Ho il sospetto che molti capolavori siano nati in un salone. Poi ci furono le pentole di mia mamma, su cui cominciai a suonare le percussioni. Non censurai questa follia: nei primi tempi le portavo in tv e quelle esibizioni bucavano lo schermo.

 

Suo grande precursore fu Gegè Di Giacomo, spalla indimenticabile di Carosone, che con le bacchette della batteria sconfinava dappertutto.

Lo conobbi quando era anziano e quasi cieco, nel locale di Praiano dove si esibì per anni. Con quanto amore lo guardai, pensando che con le sue gag funamboliche aveva anticipato di molto Les Tambours du Bronx e gli Stomp.

 

       

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