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La serata finale

L'Eurovision è l'arma più forte. A Torino vince l'Ucraina

Claudio Giunta

Il voto del pubblico premia la band ucraina Kalush Orchestra, al termine di una settimana che non è stata immune dalla retorica. Ma questo baraccone kitsch interessa e quasi commuove. Le canzoni, l’Europa, l’inglese, la forza dell'Eurovisione. Reportage

Pensavo di chiudere queste chiacchiere sull’Eurovision Song Contest con i versi finali di Vento e bandiere di Montale, quelli in cui il poeta contempla da lontano un villaggio che si prepara a celebrare una festa, mentre il sole sta per tramontare. Ma poi mi è sembrato un po’ fuori tono, anche retorico, per una manifestazione che dalla retorica non è stata immune (i testi letti/recitati dai tre presentatori sono stati per lo più insoffribili, con le loro pippe sulla fratellanza e l’inclusione, mancava solo la resilienza: diosanto è una GARA!). Poi un amico mi ha ricordato un epigramma di Coleridge: "I cigni cantano, prima di morire: non sarebbe male / se certe persone morissero, prima di cantare". Ma con questo sarcasmo cadevo nell’eccesso opposto: dopotutto, mica solo i cigni hanno il diritto di cantare! Così chiudo con un confronto, e chiudo ad anello, ritornando all’Islanda.

 

Avevo un amico islandese che è morto un paio d’anni fa. Insegnava Letteratura Neolatina all’Università di Reykjavík, e ha imparato a conoscere l’Europa negli anni Cinquanta, prima con uno di quei Grand Tour che usavano fare gli alto-borghesi e gli aristocratici di una volta (Sigurður, per gli amici Siggi, veniva da una famiglia importante, un po’ islandese un po’ danese un po’ thailandese, perché il bisnonno era stato un dirigente della Compagnia danese delle Indie orientali), poi frequentando l’università in Inghilterra. "Oh sì – mi ha detto una volta – per quanto riguarda l’educazione la mia famiglia era molto britannica. Tutta la buona borghesia islandese una volta lo era. Chi poteva, andava a studiare in Inghilterra: la lingua, le buone maniere... È solo da un paio di generazioni che le scuole di business administration americane hanno preso il posto di Oxford e Cambridge. Vedi con quali risultati... La mia zia paterna è stata forse la prima donna islandese a studiare a Oxford e a Londra, negli anni Venti. Per qualche tempo era stata ospite di Lady McDouggal, la vedova del sindaco di Londra, e da allora non ha mai smesso di citarla come un oracolo: Come diceva Lady McDouggal, ripeteva sempre... Mia madre ha studiato a Londra dieci anni più tardi. Qualche mese fa, poco prima di morire, mio fratello si è ricordato di un viaggio che avevamo fatto tutti insieme, credo che stessimo tornando dalla Danimarca, doveva essere la fine degli anni Quaranta, io ero molto piccolo. La nave Gullfoss faceva scalo a Leith. La gente scendeva per fare acquisti. “Com’era strano sentire nostra madre che parlava inglese!”, mi ha detto mio fratello".

 

Siggi parlava un italiano impressionantemente corretto. L’aveva imparato sui libri, soprattutto, e durante qualche soggiorno in Italia. Il primo era stato nel 1971, l’anno in cui io sono nato: "Mi sono fermato per qualche settimana a Firenze prima di andare a Roma. Sono arrivato in treno dalla Danimarca, una sera di gennaio. Ho lasciato i bagagli in albergo e sono andato subito in Piazza della Signoria. Palazzo Vecchio al buio, la Loggia dei Lanzi, nessuno in giro perché era tardi e faceva freddo: è stata una delle esperienze più importanti della mia vita. Ripensandoci, ho fatto bene a fermarmi a Firenze. L’impatto con Roma sarebbe stato troppo forte". A Firenze, nei depositi degli Uffizi, c’è un quadro col ritratto di un suo antenato, il matematico Thomas Fincke, docente all’Università di Copenaghen nella prima metà del Seicento: nei cassetti di Siggi dev’essere rimasta la foto che era riuscito ad ottenere scrivendo anni dopo alla direzione del museo.

 

"L’impatto con Roma sarebbe stato troppo forte". Che bella frase; e come cambiano i tempi! E anche le classi sociali, ovviamente. Niente Grand Tour, niente studi in Inghilterra, la mia educazione europea negli anni Settanta e Ottanta è passata quasi tutta attraverso la radio e la TV. Naturalmente è stata un’educazione meno raffinata di quella che ha ricevuto Siggi, tra il mio inglese e il suo non c’era gara, per esempio, però è stata davvero un’educazione di massa, nel senso che in pratica tutta la mia generazione l’ha attraversata, quasi gratis, quasi senza muoversi da casa. Adesso si può ironizzare su Giochi senza frontiere o sull’Eurofestival, ma è un fatto che i nomi e l’aspetto di un mucchio di città, e anche un mucchio di storia, ci sono arrivati attraverso quegli strani, improvvisati canali. E lo sport in Eurovisione, anche. Una volta ho incontrato per caso Bob Morse, il grande cestista della Ignis Varese, e le sue parole mi hanno aiutato ad afferrare le dimensioni del fenomeno: "Abbiamo fatto sette finali consecutive in Coppa dei Campioni. Voleva dire andare in eurovisione quando c’erano due o tre canali, ed essere visti da decine di milioni di persone. Quando giocavamo contro l’Armata Rossa c’erano anche gli spettatori dell’est, e i numeri erano ancora più impressionanti. In sostanza giocavamo davanti a un intero continente".

 

Insomma, noi figli dell’Eurovisione all’"impatto con Roma" o con qualsiasi altra città europea eravamo preparati: le avevamo viste tutte in TV; e la radio e i dischi pop ci avevano insegnato quel po’ di inglese che era sufficiente per farsi capire una volta scesi dai treni dell’Interrail. Ma naturalmente non erano serviti soltanto a questo: niente, assolutamente niente mai mi ha dato tanto piacere quanto le canzoni pop, e niente mi ha aiutato di più a tenere duro quando la vita si è fatta difficile o triste, neanche le poesie: e il tempo che ho passato ad ascoltare canzoni non è stato molto di più del tempo che ho passato a leggere poesie. Ecco perché non solo m’interessa ma quasi mi commuove quel baraccone kitsch che è l’Eurovision Song Contest (ESC). Le canzoni, l’Europa, l’inglese (no, non mi piacciono tanto le canzoni nella lingua nazionale, i serbi in serbo e gli italiani in italiano, voglio una lingua franca condivisa, e non importa se è una lingua smozzicata, semplificata all’osso, da aeroporto). Rispetto alla generazione di Siggi e alla mia, poi, oggi è tutto molto più facile e a portata di mano. I ragazzi che ho visto in giro per Torino in questi giorni non erano certo alto-borghesi, ma questo è stato un pezzo del loro Grand Tour; e gli altri, a decine di milioni – gente che non ha fatto e non farà mai l’Erasmus, che forse nella vita non potrà mai avere il suo "impatto con Roma", o con Torino – lo hanno visto in TV o in rete. Vi viene in mente un modo migliore per mobilitare una generazione intera senza dichiarare una guerra?

 

Poi certo, come dice il poeta, tra l’idea e la realtà cade l’ombra. L’ESC di quest’anno – di tutti gli ultimi anni, mi dicono gli habitué – non ha avuto l’allegria e la ruspanza dei nostri Sanremi, che cominciano alle otto e mezza e finiscono all’aurora del giorno dopo in mezzo a gaffe, incidenti, pettegolezzi: tutto era perimetrato, contingentato, col manuale Cencelli degli spazi e dei tempi, anche in sala-stampa (una canzone, una domanda innocua a testa, avanti il prossimo), con i buoni sentimenti on display, la santificazione delle minoranze etnico-sessuali, le allusioni caute e indirette alla guerra (la finale si è aperta con l’orrida Give Peace a Chance cantata in coro), la gommapiuma su ogni possibile angolo, persino una versione dell’ESC calibrata per i sordi, con le canzoni – cito dal comunicato-stampa – "non solo ‘tradotte’ nella lingua dei segni ma interpretate da performer capaci di tradurre nei gesti la musica e le sue emozioni".

Per un po’ d’imprevisto bisognava affidarsi alla logistica, al casino di varchi cancelli ingressi riservati che ha molto complicato la vita di tutti i non-cantanti tra Piazza d’Armi e il PalaOlimpico (già PalaIsozaki, già PalaAlpitour), tra l’altro sotto una canicola quasi estiva, implacabile sull’orrenda spianata di cemento che si apre davanti al già Stadio Mussolini, poi Comunale, ora Olimpico Grande Torino (qui i nomi degli stadi durano quanto un’amministrazione comunale, un regime al massimo). E le canzoni… Beh, sì, per la gran parte le canzoni erano abbastanza dimenticabili, anche e soprattutto quella che ha vinto. Però non tutte: brava l’olandese, la greca, bravi i norvegesi; anche la serba, che ha avuto coraggio. Ma insomma, bravi tutti, alla fine, tutti, tutti, cosa cazzo volete chiedere di più al legno storto dell’umanità:

Il mondo esiste... Uno stupore arresta
il cuore che ai vaganti incubi cede,
messaggeri del vespero: e non crede
che gli uomini affamati hanno una festa.


 

L'Eurovision negli articoli del Foglio



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