(foto di Ansa)

musica

Eurovision, così il pop salverà l'Europa

Claudio Giunta

Potere delle canzoni. L’Eurovision Song Contest, che l’Italia ha snobbato fino alla vittoria dei Måneskin, è un altro passo nel processo di integrazione europea. E oggi, con la guerra in Ucraina e l’esclusione della Russia dal concorso, la rassegna diventa lo specchio della politica del futuro. Un’indagine

Islanda/1. C’è questo film islandese di qualche anno fa che ha come protagonisti un giovane uomo e una giovane donna (lui è Will Ferrell) che sin da bambini sognano di rappresentare l’Islanda all’Eurovision Song Contest e di vincerlo. Lei è piuttosto dotata ma timida, lui è un po’ scemo, non sono mai usciti dal villaggio nord-islandese dove sono nati, Húsavík, rinomato per la pesca e l’avvistamento delle balene, si presentano alla pre-selezione del Söngvakeppnin (una specie di Sanremo ancora più casereccio) ma non hanno lo straccio di una chance. Solo che per un caso fortunato (o è un sabotaggio?) tutti gli altri concorrenti islandesi muoiono in un incidente, così tocca a loro. Partono per la finale a Edimburgo e qui succedono tante cose, e fra le tante c’è da far fronte all’insidia di un cantante avversario molto affascinante ma mellifluo, invadente, aggressivo, probabilmente pericoloso… E indovinate di che nazionalità è questo villain annidato nel cuore del Sogno Europeo? Indovinate un po’? Esatto.

 


Islanda/2. Ho sempre saputo dell’esistenza di una cosa chiamata Eurovision Song Contest (ESC), ma non le avevo mai dato molta importanza finché una decina d’anni fa, una sera, trovandomi a Reykjavik, sono uscito dall’albergo e ho trovato le strade vuote. Non era proprio come quando la famiglia Fantozzi sale in macchina nella Roma deserta per andare a vedere la Corazzata Kotiomkin al cineclub mentre in tv danno Inghilterra-Italia, nessuna voce di telecronista usciva dalle finestre sigillate delle case, tra l’altro perché in Islanda la sera fa freddo anche a maggio, ma certo qualcosa, qualcosa di importante, di catalizzante, stava succedendo. Raggiunti i miei ospiti islandesi per cena, una cena in cui pensavo che sarei stato io – un nuovo italiano di passaggio in Islanda – l’attrazione principale, ho ricevuto una forchetta e un piatto di plastica e l’invito a riempirlo con quello che volevo del poco di cucinato che c’era sul tavolo del soggiorno, dopodiché quello era l’angolo di tappeto su cui potevo sedermi col piatto sulle ginocchia, in terza fila dietro una selva di bambini eccitati ma molto composti, quello era il bagno se ne avevo bisogno, e quello era il maxi-schermo su cui tra poco sarebbe cominciato l’ESC. Felici di avermi con loro, ma nelle successive tre ore non sarei stato io il centro dell’attenzione.

 

L’ESC era una cosa grossa, una grande occasione. Il fatto è che non c’erano ancora stati gli Europei di calcio del 2016, l’Islanda non era ancora arrivata ai quarti battendo l’Austria e l’Inghilterra, e poi uscendo con onore contro la Francia, era di là da venire tutta la mistica della nazione-Davide contro le nazioni-Golia, del popolo rude ma civile temprato dagli inverni sub-artici, di quella baracconata del geyser sound… E si era poco dopo il 2008, l’Islanda aveva fatto default, bisognava mostrare la propria faccia migliore all’Europa, recuperare la dignità perduta, vincere qualcosa o almeno fare bella figura. Sul tavolo del soggiorno ingombro di sedani, rapanelli e patatine garrivano le bandierine. Inutilmente, perché Greta Salome & Jonsi, i rappresentanti dell’Islanda a quell’edizione dell’ESC, avevano una canzone banalotta, e sono arrivati soltanto settimi. But still.

 

Al rientro in Italia parevo matto. L’ESC – mi dicevano gli amici – era roba da Toto Cutugno, da Ricchi e Poveri, da eliminatorie di Sanremo, perché uno avrebbe dovuto dedicargli un secondo d’attenzione? Lo guardassero quei fanatici di periferia degli islandesi, o gli azeri, gli armeni (perché l’Azerbaigian e l’Armenia fanno parte del circuito ESC, come altre nazioni certamente non-european: ci torneremo). Poi è successo qualcosa se si vuole di non tanto diverso rispetto a ciò che è successo al Festival di Sanremo, solo in meno tempo. Anche il Festival di Sanremo era diventato una cosa ridicola, a un certo punto, una specie di balera per cantanti a fine corsa e presentatori improvvisati (per dire, 1979: primo Mino Vergnaghi, secondo Enzo Carella, terzi i Camaleonti, quinto Enrico Beruschi). Ma poi, negli anni, la lenta risalita, con quello che sembrava il culmine, lo zenit nel 2021, quando vincono i Måneskin con Zitti e buoni; e invece era un pre-zenit, perché nel 2022 Sanremo lo vedono e ne parlano, alla lettera, tutti, e nel frattempo i Måneskin hanno vinto l’ESC, sono andati in America, hanno cantato al Late Show di Jimmy Fallon, hanno aperto i concerti dei Rolling Stones eccetera eccetera.

 

Ed ecco che l’ESC diventa una cosa seria, prestigiosa, una bella passerella, un bel trampolino, parla pur sempre al più ambito dei pubblici, i teen-ager europei di medio cattivo gusto. E ci riguarda direttamente, perché il regolamento vuole che la nazione che vince l’ESC l’anno dopo lo organizza a casa sua: ed eccoci qui.


Tra la fondazione della Ceca (Comunità europea dell’acciaio e del carbone) nel 1951 e la fondazione dell’Euratom (Comunità europea dell’energia atomica) nel 1957 cade la fondazione dell’Eurovision Song Contest (1956). L’iniziativa è dell’European Brodcasting Union (Ebu: l’Eurovisione, insomma), cioè del suo direttore Marcel Besançon, dal 2002 eternato dai “Marcel Besançon Awards” che giurie ristrette assegnano ogni anno a latere della votazione ufficiale. Ma l’idea, il germe dell’idea pare sia merito di un italiano, uno dei tanti italiani di genio che nessuna statua commemora, l’allora direttore della Rai Sergio Pugliese, che propose ai direttori delle altre tv nazionali una specie di Festival di Sanremo continentale. Proposta accolta, prima edizione (radiotrasmessa) al teatro Kursaal di Lugano, sette nazioni partecipanti, presenta Lohengrin Filipello, voce storica della Radiotelevisione svizzera, vince la canzone Refrain della svizzero-tedesca Lys Assia. Su YouTube si trova il video dell’esibizione di Lys e, per quanto possa suonare banale, uno resta senza parole constatando quanto la specie umana sia cambiata in così poco tempo: da Lys Assia in lungo, onusta di fiori (1956), alla barba di Conchita Wurst (2014). Ben scavato, vecchia talpa del gender.

 

Da quell’anno in poi il famoso “processo di integrazione europea” si svolgerà su due binari scarsamente comunicanti. Il primo è quello delle istituzioni politico-economiche e dei trattati: un’invenzione mai tentata nella storia, un processo d’importanza epocale, prima sei poi nove poi quindici infine (per ora) ventotto paesi che rinunciano a un pezzo della loro sovranità e la trasferiscono a organismi sovranazionali, con virtuale abolizione delle frontiere, coordinamento nella politica economica ed estera, moneta comune eccetera; il tutto però purtroppo calato in un contenitore di mostruosa complessità e di ancora più mostruosa noia – una calotta di noia densa come nebbia, un crampo ai polpacci che ti afferra ogni volta che riapri dossier soporiferi già nel titolo come Il progetto europeo o Come funziona l’Unione europea, o vagamente iettatori come Un futuro per l’Europa, e poi scaffali pieni di massacranti libri del Mulino o di Laterza, e le supercazzole di Habermas che poi finiscono nei discorsi di Renzi o di Letta – noia e mal di testa per chi, da profano, si provi a orientarsi nel dedalo delle commissioni, dei consigli, dei comitati, delle corti, delle agenzie, e infine del Parlamento, che sta a Bruxelles ma, non scherzo, ogni tanto va in trasferta pagata a Strasburgo, e però il segretariato generale sta a Lussemburgo. Morire, dovete.

 

Il secondo binario del “processo d’integrazione europea”, nonché l’unico che ci interessi in questa sede, è il pop. Avete ancora nelle orecchie la voce di Elisabetta Gardini e Fabrizio Frizzi che telefonavano alla gente a casa e se il tizio o la tizia rispondeva “Europa Europa” vinceva una cospicua somma in, lo sa dio perché, “scudi d’oro”? Quello era un frammento di “integrazione europea”. E da ragazzini avete aspettato il mercoledì sera per vedere in tv i due svizzeri – c’è un’inflazione di Svizzera, in questa storia – Gennaro Olivieri e Guido Pancaldi che conducevano Giochi senza frontiere? Vi ricordate trois deux un e poi il fischio? Il fil rouge? Ecco, anche quello era un frammento di “integrazione europea”, anzi era l’Europa che volevamo e che sempre vorremmo: niente banchieri in giacca e cravatta, niente esercito comune per fronteggiare chissà quale fantomatica aggressione da est, niente “processo di Bologna” che ha devastato l’università; solo allegri gruppi di sciroccati di Rouen, Albacete, Pizzighettone vestiti da pupazzi che dentro scenografie felliniane si agitano al ritmo dei fischietti di Guido e Gennaro. 
Vi ricordate anche dell’Eurofestival, antico nome dell’Eurovision Song Contest? No, vero? E’ perché i poteri forti ce ne hanno privato.

 

Non solo gli islandesi: anche la mia amica Alessandra, cresciuta in Germania, non ha mai perso una finale dell’ESC. Laureata, addottorata, docente universitaria, non la perde neppure adesso, ogni primavera, lei il marito e i figli, sul loro divano di Berlino. E non ironicamente, non con lo spirito iconoclasta con cui l’ateo va a Lourdes, o con cui fino a qualche anno fa noi guardavamo Sanremo, no, lo guarda perché vuole che la Germania vinca (solo che non vince mai un po’ per la qualità medio-bassa del pop tedesco, un po’ per colpa del mefistofelico sistema di votazione “che premia certe nazioni che fanno gruppo, un po’ una camorra, diciamolo”, ma soprattutto “perché la Germania sta sul cazzo a tutti”). Di fatto, al di là delle Alpi l’ESC ha funzionato sempre, come ascolti e poi come vendite, e più a nord si va, più funziona: insomma, nel 1974 hanno vinto gli Abba con Waterloo, e la vittoria gli ha dato le chiavi del mercato mondiale, centinaia di milioni di copie vendute, una decina di primi posti nella classifica inglese, la disseminazione planetaria del camp scandinavo: senza l’Eurovision Song Contest non avremmo avuto il musical Mamma mia!, per dire. 

 

In Italia no, in Italia siamo stati a lungo distratti, o schizzinosi, d’altra parte eravamo i detentori del brand originario, il Festival di Sanremo, che bisogno c’era di fare questa famosa gita a Chiasso? O meglio. Agli inizi anche gli italiani sembravano abbastanza coinvolti, soprattutto in qualità di ambasciatori del Belcanto contro il pop maleducato di presuntuose meteore come i Beatles o i Rolling Stones. Nel 1964 in Danimarca vince la nostra Gigliola Cinquetti, non ancora diciassettenne, con Non ho l’età (mercoledì 11 la si celebra alla Cavallerizza Reale, e sabato dovrebbe essere tra gli ospiti della finale, cinquantotto anni dopo), e la Stampa saluta la vittoria con un bell’articolo nella pagina degli spettacoli ma con richiamo in prima: Gigliola Cinquetti vince a Copenaghen. La fine degli urlatori? “Si è imposta con una voce limpida, serena, innocente. E’ stata una tappa negativa per gli urlatori, forse l’inizio della fine. Torna il canto spontaneo e ingenuo delle nostre nonne. La vittoria della Cinquetti è il trionfo della grazia”. Indeed. “Mostrando i due dentini aguzzi come quelli dei castori singhiozzava, sorrideva, confusa, commossa, impacciata […]. In prima fila, accanto agli ospiti d’onore e alla mamma che la segue ovunque, applaudivano i colleghi stranieri, contenti di essere stati sconfitti da una ragazza alla buona”. Un idillio: che il solito sovversivo, ce n’erano anche allora, ha provato a guastare con un gesto sconsiderato, ma è bastato dirottare le telecamere: “Un piccolo incidente ha turbato per un attimo lo spettacolo: un dimostrante danese è riuscito a salire sul palcoscenico mostrando al pubblico un cartello su cui era scritto “Boicottate Franco e Salazar”. Le telecamere sono state dirottate sul volto della bella presentatrice Lotte Waever, il cui sorriso ha rassicurato gli spettatori in ansia”. L’Eurofestival era trasmesso sul Canale Nazionale; sul secondo, “valida alternativa alle canzoni”, una conversazione con lo scrittore francese André Maurois.

 

Insomma, non ampia, magari, ma puntuale copertura sulla stampa e in tv. Poi l’impressione è che l’Eurofestival si sia inabissato, scomparendo dai radar. Quando nel 1990 a Zagabria vince Toto Cutugno, la Stampa mette solo una sua foto in taglio basso a pagina 20, senza articolo, con un titoletto commemorativo: A un quarto di secolo da Gigliola. C’è da dire che l’Italia ha sempre avuto un pregiudizio negativo contro Toto Cutugno: fosse stato napoletano, ne canterebbero gli aedi, ma è di Fosdinovo, poverino, provincia di Massa-Carrara. Da lì comunque comincia l’inabissamento. L’anno dopo l’Italia organizza l’Eurofestival a Roma – perché chi vince l’anno dopo organizza – e le cose non vanno tanto bene, si spende molto più di quel che si guadagna, e per qualche anno l’Italia nemmeno fa lo sforzo di mandare dei concorrenti, non sia mai che rivincessero, costringendo a ri-organizzare… Per inciso, era anche il cruccio degli islandesi, sia nella realtà sia nella trama di Fire Saga: il cattivo, emissario del governo, faceva fuori tutti i candidati islandesi all’ESC per evitare di dover ospitare l’anno dopo a Reykjavík plotoni di esagitati provenienti dai quattro angoli del mondo, dato che alla comitiva ERC si sono nel frattempo aggregati non solo l’Azerbaigian e l’Armenia ma anche Israele, anche l’Australia, con le sue valanghe di immigrati europei. Scandalo degli scandali – almeno a dar retta a Gigi Vesigna – nel 1997, quando una congiura di palazzo nega ai Jalisse una vittoria che era lì a portata di mano, e che avrebbe anche potuto farli diventare i nuovi Abba: “All’Eurofestival si capisce subito che possono addirittura farcela proprio con Fiumi di parole. Ma l’Italia che non può, né vuole permettersi di organizzare un Festival europeo (che oltretutto non manda nemmeno in onda), organizza uno scambio di voti. In sostanza se gli altri paesi non voteranno per i Jalisse la giuria italiana voterà per chi sarà designato. E, nonostante tutto, i Jalisse si piazzano al quarto posto” (Gigi Vesigna, Vox Populi. Voci di sessant’anni della nostra vita, Excelsior 1881, Milano 2010, p. 451).

 

Poi un decennio, più di un decennio di astensione, l’Italia non partecipa e non trasmette l’ESC. “Senza l’Italia non ha più senso”, pare abbia dichiarato Dieter Bohlen, ex voce e chitarra dei Modern Talking, dando voce alla contrizione di tutti. Ma niente da fare. L’Italia ritorna soltanto nel 2011 e viene subito re-inserita tra i Big Five, i cinque paesi che accedono di diritto alla fase finale in sostanza grazie ai soldi, in quanto “maggiori contributori finanziari dell’European Broadcasting Union”: gli altri sono Germania, Spagna, Francia e Gran Bretagna. L’analista non può fare a meno di domandarsi come mai nel paese di Colpo Grosso e Cartabianca questa tamarrata ci abbia messo così tanto ad attecchire. Mi dice Pietro Galeotti, autore televisivo insigne e scrittore (leggete La riunione, Feltrinelli, fa molto ridere), che è soprattutto una questione di strategia televisiva: “Grande amore del Volo vince a Sanremo nel 2015 e va all’ESC. Quelli del Volo diventano famosi in tutta Europa, e l’ESC, trasmesso senza tante fanfare su Rai Due, fa ascolti sorprendenti. Così l’allora vicedirettore Palinsesto e Marketing di Rai Uno Andrea Fabiano va dal direttore Giancarlo Leone e gli suggerisce di spostare l’ESC su Rai Uno. Cosa che accade nel 2017, con Francesco Gabbani che porta Occidentali’s Karma a Kyiv, e dovrebbe vincere ma alla fine non vince. Però l’ESC, trasmesso su Rai Uno, batte Amici della De Filippi. Poi l’anno scorso naturalmente i Måneskin fanno il botto, e adesso diciamo che l’ESC è entrato definitivamente nella mappa delle cose pop da seguire in tv e in rete, anche in Italia”.

 

La rete, appunto, è stata quella che ha rivoluzionato il gioco: “Perché è chiaro che tutto cambia quando entrano in campo i social network, e il pubblico in soggiorno non si limita a guardare lo schermo ma giudica, prende appunti, messaggia: l’ESC è il perfetto evento da social network, perché mette insieme canzonette orecchiabili, campanilismo e gusto per il trash, e polarizza sì, ma con misura: si prendono in giro i concorrenti avversari, ma anche il proprio, e poi il meccanismo della votazione [ci torneremo] è un perfetto generatore di chiacchiere, sospetti, micro-indignazioni spendibilissime su Twitter. Insomma è l’Evento che combacia meglio con le modalità di fruizione della nostra epoca”.

 

Già. Ma c’è anche dell’altro, in questa cornucopia. C’è che le scenografie sono diventate quasi tanto importanti quanto le canzoni, e i cantanti si presentano sul palco in mise sempre più elaborate e vistose, con corpi di ballo da teatro di rivista, e anche in base a questo ricco contorno vengono giudicati. C’è un elemento visivo, figurativo, insomma, che prima non c’era. La Cinquetti in abitino nero in piedi davanti al microfono non è più un’opzione: la performance conta, e più originale e selvaggia è, meglio è, anche perché le canzoni di rado sono dei capolavori. “E – osserva sempre Galeotti – negli ultimi anni c’è stata un’interessante osmosi al contrario. L’ESC nasce più o meno come imitazione del Festival di Sanremo. Adesso è Sanremo che imita le performance colorate dell’ESC, con certi abiti costruitissimi, le scenette simil-punk di Achille Lauro, i torsi nudi tatuati…”. I corpi, infatti. L’ESC ha operato miracoli nella ridefinizione di outfit, acconciature, modi di muoversi, immaginario glam; e, anche prima di Conchita Wurst, è probabile che abbia fatto per la causa Lgbtq+ più di quanto la Disney, anche applicandosi, potrà fare in decenni. Soprattutto, lo ha fatto parlando a un pubblico molto più vasto e più popolare di quello che questo genere di discorsi di solito riesce a raggiungere: un pubblico dell’Est, per esempio, che all’apertura mentale in fatto di gender è meno disposto per esempio degli scandinavi – il cattivo del film islandese di cui dicevo all’inizio non è veramente cattivo, è un gay represso/inconsapevole a cui non hanno mai permesso di essere sé stesso (“Sono russo. Non ci sono gay in Russia”); non è lui ad essere cattivo, sono le circostanze, è l’atteggiamento che crede di dover tenere in mezzo agli altri (“Stasera conquistiamo palco, domani il mondo”: il film è del 2020), ma l’ESC alla fine lo salva, se ne andrà su un’isola greca, come il cast di Mamma mia!.

 

E poi c’è il pre-ESC, che dura tantissimo e, grazie a internet, è diventato rapidamente una questione planetaria. Perché mentre le canzoni di Sanremo devono essere inedite, quelle che vanno all’ESC vengono messe in circolazione presto, girano su Spotify e su YouTube e arrivano sul palco quando ammiratori e detrattori le hanno già sentite e risentite e commentate, per esempio in questi video di Reactions caricati su YouTube (non ho cuore di andare su TikTok, ho cinquant’anni) in cui gruppi d’ascolto americani, africani, asiatici reagiscono a Brividi di Mahmood e Blanco con commenti anche molto articolati, partecipi: è chiaro che la buona reputazione mondiale dell’Italia si costruirà sempre di più attraverso prodotti e canali di questo genere, Mario Draghi è solo di passaggio.

 

Ma basta con il passato, con tanto presente che incombe: Dal 10 al 14 maggio Torino ospita la sessantaseiesima edizione dell’ESC. Il nemico sembravano essere i postumi della pandemia, i residui timori di contagio; e invece naturalmente sarà l’edizione della guerra in Ucraina. Il 25 febbraio, il giorno dopo l’invasione, l’European Broadcasting Union ha deciso di escludere la Russia dall’ESC. La richiesta è venuta dagli ucraini, certo con buone ragioni: “Vorremmo sottolineare che l’Eurovision Song Contest è stato creato dopo la Seconda guerra mondiale per unire l’Europa. In considerazione di ciò, la partecipazione della Russia come aggressore e violatore del diritto internazionale all’Eurovision di quest’anno mina l’idea stessa della competizione”. E’ partito l’hashtag #EurovisionwhitoutRussia, dopodiché l’EBU ha accolto la richiesta dell’Ucraina spiegando che “l’inclusione di un concorrente russo nella competizione di quest’anno porterebbe discredito alla manifestazione”.

 

Decisione tempestiva. Forse troppo? E’ vero che qui i concorrenti rappresentano non solo sé stessi, come a tennis, ma il loro paese, e che ogni paese ha una sua trafila di selezione più o meno direttamente governata dallo stato; ma d’altra parte si devono cercare, specie adesso, a più di due mesi dall’inizio della guerra, delle occasioni non di appeasement ma di vicinanza e reciproca comprensione: un cantante russo sul palco di Torino, un cantante di buona volontà, non avrebbe potuto contribuire a creare quest’occasione, davanti a un pubblico quasi planetario? E poi non ricevere neanche un punto, e assistere magari alla vittoria dell’Ucraina (qui infatti quasi tutti sono convinti che rivincerà l’Ucraina con la Kalush Orchestra, e che il prossimo anno la carovana ESC ritornerà a Kyiv, sperando di trovarla in piedi)? E poi abbraccio sul palco, popoli che si riconoscono fratelli, fine delle ostilità? Si scherza, naturalmente, ma neanche tanto, perché il dubbio viene davvero: là dove hanno fallito la ragione e la diplomazia non varrebbe la pena di provarci col pop? E se non il cantante russo selezionato dai russi, perché non invitare fuori gara uno di questi rapper d’opposizione tipo Morgenshtern o Oxxxymiron, molto seguiti dai giovani in Russia e molto schierati contro la guerra? Bisognerebbe sparigliare, dare delle chance al “pensiero laterale”, come dice Giuseppe Conte, l’Italiano Assoluto: ma davvero.

 

Del resto, rimaniamo ancora un attimo in argomento, che l’ESC sia anche ormai una manifestazione politica è evidente, come tutto ciò che riguarda le masse sparse per il globo e quell’esperanto che sono ormai le canzoni. L’Ucraina ha vinto a Stoccolma nel 2016 con una canzone iper-politica, 1944 (28 milioni di visualizzazioni su YT), che parla della deportazione dei tatari dalla Crimea alle steppe dell’Asia centrale da parte del governo sovietico nell’anno, appunto, 1944: 

 

When strangers are coming
They come to your house
They kill you all
and say
We’re not guilty
not guilty
Where is your mind?
Humanity cries
You think you are gods
But everyone dies
Don’t swallow my soul
Our souls

 

I russi si erano presi o ripresi la Crimea da un paio d’anni, erano entrati in Donbass, c’erano stati i massacri di Euromaidan: la reazione incazzata, anche sul palco dell’Eurovision, ci sta. I russi quell’anno sono arrivati terzi con la candida You are the only one (44 milioni di visualizzazioni su YT), ma comprensibilmente non hanno gradito che in una gara di canzoni trasmessa in mondovisione i loro ex connazionali gli ricordassero i crimini di Stalin. Dal Guardian: “… la Russia ha preteso un’inchiesta per appurare come mai una canzone politica è stata ammessa all’evento, e ha minacciato di boicottare la manifestazione del prossimo anno”; ciò che poi di fatto è avvenuto, ma per una ragione più sottile: perché la cantante designata dai russi, Yulia Samoylova, si era esibita in Crimea dopo l’annessione della regione alla Russia, e sarebbe stata respinta al confine ucraino: micro-faide che si sono aggiunte alla faida. Il commento della parlamentare Elena Drapeko, pronunciato nel 2017, ha un sapore un po’ diverso riletto nel 2022: la vittoria della canzone 1944 “è in parte una conseguenza della guerra di propaganda che è stata mossa contro la Russia. C’è una demonizzazione generale della Russia: si dice che siamo cattivi, che i nostri atleti sono dopati, che i nostri aerei volano lo spazio aereo degli altri paesi” (ma per confermare che tutto è più complicato di come sembra aggiungiamo un dato un po’ spiazzante: che per la canzone ucraina anti-staliniana ha votato un gran numero di televotanti russi, e che per la canzone russa strappacore You are the only one ha votato un numero ancora più grande di televotanti ucraini: si è simili, spesso parenti, si parla la stessa lingua, ci si vuole bene, e non per modo di dire, give pop a chance).

 

Così quest’anno è chiaro che il sottotesto politico rischia di invadere non solo un pezzo ma tutto lo spazio della manifestazione. Mentre scrivo queste righe – dato che mi sono registrato al sito dell’organizzazione – mi arrivano nella posta elettronica i “greetings from the delegation of Ukraine”, con una cartella di foto e notizie sulla Kalush Orchestra, e disponibilità per interviste: nessun’altra delegazione mi ha scritto, è chiaro che l’ESC sarà per loro un altro strumento della controffensiva, questo per fortuna non cruento: noi faremmo lo stesso. Di qui la mia proposta strategica, che giro volentieri alla delegazione suddetta. 
Nel film Fire Saga la coppia islandese arriva alla finale a Edimburgo con una canzone d’amore un po’ loffia, in inglese. Ma poi sul palco succede qualcosa, c’è una specie di folgorazione, e al posto di quella si mettono a cantare Húsavík, My Hometown, mezza in inglese e mezza in islandese. Vengono eliminati, perché naturalmente non si può cambiare canzone in corsa, ma l’Europa intera si commuove di fronte a questa bella testimonianza di amor patrio (lo straniero islandofilo che conosce Húsavík riesce a commuoversi anche davanti allo schermo alle due del pomeriggio).

 

La Kalush Orchestra presenta all’ESC 2022 il brano folk-hiphop Stefania, che i bookmakers un mese fa davano favorito al 36 per cento, oggi a un vertiginoso 42 per cento. Ora, con tutta la simpatia per gli ucraini, a me pare proprio, e me ne scuso, una canzonaccia da caravanserraglio mediorientale, altro che Europa. Se vince, vince per la guerra, e così è facile. Mentre è così bella la canzone popolare Oyu luzi chervona kalyna che abbiamo imparato a fischiettare da un paio di mesi a questa parte. Perciò si potrebbero imitare i Fire Saga del film: lasciar perdere Stefania e intonare a cappella Oyu luzi chervona kalyna, magari con le parole che passano sullo schermo in modo che il pubblico del PalaOlimpico si unisca al coro. Così io mi metto a frignare un’altra volta, l’Ucraina fa capire al mondo che conta esserci, non per forza vincere, viene squalificata e passa in testa la canzone che i bookmakers davano vincente prima che Putin rovinasse tutto, passa in testa Brividi di Mahmood-Blanco, vince l’Italia!

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