Francesco Guccini (foto LaPresse)

l'intervista

Guccini: "Non ho la minima idea di chi sono oggi. Ma la vecchiaia è meravigliosa"

Giuseppe Fantasia

La vita di provincia a Pàvana, che "un posto migliore non c'è". I consigli quirinalizi, "vorrei un altro mandato di Mattarella ma non è che lo si può costringere". Colloquio con il cantautore emiliano, che dopo la pandemia ha pubblicato un nuovo libro

“Mi piace inventare e raccontare le storie, ascoltare ed essere ascoltato: se non avessi fatto il cantautore, avrei scelto il mestiere - non facile, ma affascinante - dell’insegnante di Lettere, che in parte ho già fatto per un periodo, anni fa, in Pennsylvania, ma era solo per un mese all’anno”. Con le sue canzoni e con i suoi libri, Francesco Guccini ci ha abituato a un suo stile senza tempo, colmo di storie buone – che non vuol dire per forza sempre positive – dove musica e parole vanno ad incontrarsi e confondersi diventando un tutt’uno. Ad emergere, anche quando non sembra, è la sua ironia e autoironia, necessarie per sconfiggere quell’amarezza del quotidiano che ognuno di noi può avere a suo modo. Un sottofondo che è in realtà pura energia, una voglia di rivalsa o un’accettazione delle cose per come sono e vengono a cui dare il giusto peso. Da più di quarant’anni, i suoi concerti sono sempre stati uno spettacolo dove non esiste alcun effetto scenico, dove l’unica cosa che conta è il rapporto che si stabilisce fra pubblico e interprete. La sua musica trova interlocutori in tutte le generazioni: dai suoi coetanei ai figli fino ai nipoti e ciascuno ricerca qualcosa di diverso, trovando nelle parole e nella musica dell’artista uno spazio proprio e privato

Più di ogni altro cantautore italiano, è riuscito a raccontare al meglio la vita di provincia, chi la vive e chi la subisce anche senza saperlo, ben conoscendo quei luoghi che continua ad abitare e ad amare ancora oggi più che mai. È nato a Modena, ma tra lui e Pàvana - “un paesino del comune di Sambuca Pistoiese con poco più di settecento abitanti, attraversato dalla ‘Porrettana’ con tanti piccoli borghi vicini”, spiega al Foglio – il binomio è inscindibile. Suo padre era pavanese ed è lì – “in quel paesino che nel 1998 ha festeggiato i suoi mille anni” - che ha passato l’infanzia ricevendo un imprinting speciale “tra cose semplici, buon cibo, il Molino di Chiccone (il mulino ad acqua che per decenni ha accompagnato le generazioni dei Guccini e la nascita delle sue prime, leggendarie, canzoni, ndr), il torrente Limentra e la locale parlata che rischia l’estinzione”. È lì che le sue canzoni hanno preso vita ed è lì che ha scritto anche i suoi libri, dalle Cròniche epafàniche al Dizionario del dialetto fino agli ultimi, come Tralummescuro. Ballata di un paese al tramonto, finalista al Premio Campiello. Lo ricordiamo in quei giorni veneziani poco contento di essere sempre circondato dall’acqua, mentre aspettava una lancia vicino alle gondole. “Non vedo l’ora di tornare tra i miei monti”, ci disse, ma questo, oggi, dice di non ricordarlo. Durante la pandemia ha scritto invece Tre cene, pubblicato come l’altro da Giunti, pagine emozionanti dove i protagonisti sono la sua gente, la sua storia, il suo idioma e il suo territorio. “La vecchia cultura contadina di una volta – scrive e ci ripete anche a voce - non c’è più: appare rarefatta in sottilissimi e lontanissimi strati ed è un peccato”. “Se vado indietro negli anni – precisa - tutte le cose più importanti sono successe qui, in questo mondo fatto di cose semplici, o comunque, è da qui che hanno avuto inizio”.

 

(foto Olycom)

“Quando ero a Modena, suonavo la fisarmonica a bocca, ma con l’avvento del rock and roll, un falegname vicino casa mi costruì una chitarra che pagò mia nonna e da lì è arrivato poi tutto il resto”. “All’inizio della mia carriera – aggiunge - le mie erano solo canzonette, come ha detto qualcuno, dei testi banali che parlavano d’amore; con quella chitarra cambiai completamente genere e con, Auschwitz, Noi non ci saremo, Dio è morto e tante altre canzoni che ho scritto e cantato, ho trovato la mia strada”. Un cammino, quello di Guccini, che ha emozionato e che continua ad emozionare tantissime persone, “storie quasi sempre autobiografiche, perché – come diceva Borges – ogni autore è sempre autobiografico”. “Nelle mie, ci ho messo e ci metto sempre qualcosa che mi appartiene, perché quella è la mia esperienza e quella è la mia visione del mondo”.

Lo dimostrò in uno dei suoi più grandi successi, Radici (1972), il cui filo conduttore è proprio la ricerca delle proprie radici, testimoni della continuità della vita, continuate poi in Piccola città (dedicata a Modena, dove per un periodo lavorò anche come giornalista) e in Bologna, omaggio a un’altra città in cui ha vissuto e che continua ad amare, protagonista di tanti suoi brani come Via Paolo Fabbri 43, un titolo che sa intrinsecamente di anti-divismo, di annullamento della distanza tra l’artista e il pubblico. Altri canzoni - come La locomotiva, Piccola città, Canzone della bambina portoghese, Canzone delle osterie di fuori porta e altre - sono piccoli-grandi capolavori che mescolano con una poetica del tutto personale l'impegno per le cause "giuste" e spaccati di vita quotidiana, di esperienze vissute in prima persona. Appunti esistenziali ispirati e pungenti che lo portarono a essere di diritto il difensore dei diritti degli altri (Piccola storia ignobile, ad esempio, era dedicata al tema dell'aborto) come di sé stesso (si pensi a L'avvelenata, simbolo della rivalsa di un artista nei confronti della critica). Più che una musica, scrisse giustamente il critico Fabio Guastalla, la sua “è una letteratura in versi e in prosa”, “è una rivendicazione di ingiustizie, è il fremito di chi ha il dovere morale di raccontare la vita, anche e soprattutto nei suoi aspetti più spigolosi”. Il suo impegno politico c’è stato e c’è e consiste in realtà nel suo modo di raccontare storie particolari elevandole a significati generali, per non dire universali. Politico è lui stesso anche nel suo perenne invito al dubbio, alla possibilità di osservare la realtà e il mondo da un altro punto di vista. Il ‘ma’, il ‘forse’ e ‘l’oppure’ che attraversano molti dei suoi testi servono così a mitigare, a togliere ogni enfasi alle sue affermazioni, proponendole, al contrario, come pensieri sempre suscettibili di nuove e diverse interpretazioni.

Che persona è oggi Gucini? Gli chiediamo. “Non ne ho la minima idea”, risponde senza pensarci, più imbarazzato che divertito, per poi cambiare argomento. Nel frattempo, la vita a Pàvana procede lentamente. Non squilla nessun cellulare - “perché non ne possiedo uno”, dice quasi scusandosi, “ma se per questo non ho neanche la patente” – e c’è un susseguirsi continuo di silenzi intervallati da suoni, rumori, gesti, sapori, odori e lentezze che sanno di antico. È come se per lui, e quelle pochissime persone che abitano il paesino, il tempo si fosse fermato a quelle giornate in cui, con i suoi amici, pensavano e costruivano giochi e passatempi (da lui poi raccontati ne Il piccolo manuale dei giochi di una volta, Mondadori, ndr), inventati “per passare giornate immortali e pomeriggi di pioggia interminabili”, giorni in cui non si combatteva cliccando sullo schermo di un videogioco, ma “schierando eserciti di coperchini tra filari di piante di fagioli, la lippa, il chioccaballe, il mulino a sabbia, il meccano e tanti altri. Per fare una fionda, bastava un pezzetto di legno, un elastico e un sogno. Cosa desiderare di più?”.

“Da Pàvana, d’estate, ci spostavamo al Lago di Suviana mentre d’inverno andavamo in città, per poi tornare sempre al paese, ai suoi boschi, ai vizi e alle semplici virtù semplici”. Che sono poi le stesse che ha cantato e divulgato nelle sue canzoni, testi poetici e graffianti, ironici e profondi che valgono quanto un libro di storia. Esisterà mai per lui un posto meglio di Pàvana? “Ve lo dico sinceramente: non c’è”. I giochi li ha sostituiti oggi con le storie, e proprio lì, in quell’angolo d’Italia tra povere case e tavoli d’osteria, ha iniziato a scrivere anche le avventure del maresciallo dei carabinieri Benedetto Santovito facendolo diventare testimone della storia d’Italia, dell’evoluzione dei costumi e delle ideologie, mentre indaga su misteriosi delitti. Legge, scrive, si informa, vede “l’andazzo della nostra Italia”, elezioni presidenziali comprese. “Mattarella mi piace molto e vorrei un altro suo mandato, ma se non gli va, non è che si può costringere”. Draghi? “Meglio come Presidente del Consiglio”. Berlusconi? “Gli consiglio di ripensarci e di godersi la vecchiaia: io lo sto facendo ed è meraviglioso”.