Neil Young in concerto nel 2019 (LaPresse) 

dinosauri rock

Neil Young è un vecchietto ma non si nota. "Barn" è il nuovo disco con i Crazy Horse

Nicola Contarini

Sempre più curvi, sempre più artritici, il solitario canadese e i suoi compagni di viaggio non rinunciano al suono di ruggine delle loro chitarre. Tra slanci di responsabilità (niente tour finché si rischia il contagio) e la malinconia di vendere il proprio catalogo per fare cassa

Neil Young è un “Canerican”, e lo canta fiero nella quarta traccia di “Barn”, nuovo disco in compagnia dei Crazy Horse uscito venerdì scorso. Perché il rocker è oggi cittadino canadese e americano. Nato a Toronto nel 1945, una vita trascorsa negli Stati Uniti rivendicando con fierezza la sua alterità, a gennaio 2020 ha preso la cittadinanza a stelle e strisce per votare contro Donald Trump. 

  

  

Oltre che “Canerican”, Neil Young è anche un vecchietto, così come i Crazy Horse, la sua storica band di supporto. Più vecchi da sempre in realtà, più curvi, più sfatti. Il chitarrista Frank “Poncho” Sampedro, per esempio, oggi ha l’artrite, vive alle Hawaii, coltiva l’orto e fa il bagno con i delfini. E così il "Cavallo pazzo" ha dovuto chiedere in prestito un componente alla E Street Band di Bruce Springsteen: Nils Lofgren, storico collaboratore di The Boss, sostituisce Sampedro alla seconda chitarra. A completare la band c'è Billy Talbot al basso e Ralph Molina alla batteria. L’album “Barn” segue “Colorado” del 2019, sempre con Lofgren, e la sostituzione non è cosa da poco: Sampedro pestava sulle corde, era capace di ripetere per decine di minuti lo stesso accordo e intanto Young si prendeva il suo tempo, ricamando assoli che hanno fatto scuola per lo spazio che corre tra una nota e l’altra. Lofgren è più raffinato, nella E Street Band è lui il virtuoso, il suo assolo nella versione live di “Because the Night” è un torrente in piena che toglie il respiro. 

    

E così, vuoi per il contributo di Lofgren, vuoi perché a 76 anni si è un po’ meno vigorosi, in questi ultimi due dischi targati Neil Young & Crazy Horse non si ascolta il muro del suono che ha reso “Rust Never Sleeps” del ’79, o “Ragged Glory” del ’90, dei monoliti proto-grunge (muro del suono eretto per l’ultima volta nel 2012 con “Psychedelic Pill”). In “Barn”, come in “Colorado”, c’è tanto country, Young torna a soffiare nell’armonica, il rock si alterna a canzoni acustiche. Ma la voce del canadese è semplicemente la stessa di sempre, all’estremo opposto di quel Bob Dylan la cui ugola è mutata da un disco all’altro come nessuna mai. 

  

Così “Song of the Seasons” ci introduce con un soffuso accompagnamento di fisarmonica, prima di ricordarci cosa significa un disco suonato con i Crazy Horse: il raspare della chitarra elettrica, la Old Black, sempre la stessa dal 1968, un’esplosione di elettroni in “Heading West” e “Human Race”, fino all’immancabile cavalcata da otto minuti di “Welcome Back”. E poi il pianoforte, nostalgico in “Thumblin’ Thru The Years”, ubriaco in “Change Ain’t Never Gonna”. Ma il tono minore, la tristezza sfumata che è il sentimento proprio del solitario canadese, viene fuori in “They Might Be Lost”: un’attesa indefinita nel luogo dello spirito americano che è il portico di casa. 

  

  

Neil Young è un vecchietto, ma non si nota. Continua a sfornare dischi a un ritmo relativamente impressionante, non va in tour perché ha paura che il pubblico si contagi – altro che Eric Clapton contro la dittatura sanitaria. Ma come molti colleghi dinosauri, ha venduto una parte del proprio catalogo: a inizio 2021, cedendo al fondo di investimento Hipgnosis metà dei diritti di copyright delle 1180 canzoni del suo catalogo, per una cifra che non è stata rivelata. Poco prima la Universal Music Group, in competizione con questi fondi di investimento, aveva pagato quasi 400 milioni di dollari per acquistare il catalogo di Bob Dylan. L’ultimo arrivato è Springsteen, la sua trattativa con la Sony è stata rivelata a inizio novembre. Come ha detto Merck Mercuriadis, fondatore e Ceo di Hipgnosis: “Una mossa folle di Donald Trump influenzava il prezzo dell’oro o del petrolio, non delle canzoni”.

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